Dal blog Mediare
senza confini di Carlo Alberto
Calcagno (link)
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1.
Definizione
Il
legislatore dell’Italia unita ha adottato, come si è detto, in particolare il
Codice di rito etneo ed in qualche modo anche la sistematica [1], ritenendo che
la conciliazione unitamente all’arbitrato [2] fossero i veri mezzi dati in mano
a chi volesse prevenire o troncare un giudizio. Il processo (“la ragione
pubblica”) era cioè considerato come un sussidio “di ogni mezzo volontario
inteso ad antivenire e a cessare le liti”: così precisava la relazione al Re
del Guardiasigilli Vacca.
Comporre le controversie era considerato il più
nobile ufficio del conciliatore e significava sia prevenire una lite che fosse
in procinto di nascere, sia terminarne amichevolmente una già incominciata. La
composizione delle controversie si definiva appunto conciliazione e consisteva
nel riunire gli animi discordi delle parti e ricomporli nell’armonia sociale:
tanta teorie americane sulla funzione della mediation
partono dunque da molto lontano [3].
La conciliazione supponeva l’interposizione di un
terzo, il quale si adoperasse “a far cessare la dissonanza delle rispettive
pretese con una stipulazione tale da rimanerne soddisfatte entrambe le parti, o
per convinzione del proprio torto o per amore di tranquillità, con o senza
sacrificio reciproco d’una porzione dei diritti controvertiti” [4]. Non è chi
non veda qui i principi basilari di questo tipo di negoziazione: l’apparenza di
contrarietà delle posizioni giuridiche, la presenza necessaria di un terzo, la
soddisfazione di entrambe le parti, la non necessaria coincidenza dell’accordo
conciliativo con lo schema della transazione [5].
In generale la conciliazione era definita “come un
contratto [6] con cui le parti, a mediazione di persona terza, compongono,
ossia definiscono all’amichevole le loro controversie” [7]. Definizione questa
mirabile poiché mostra la perfetta conoscenza che aveva la dottrina del tempo
circa il fatto che la mediazione fosse in primo luogo una procedura, e la
conciliazione il suo frutto ove si traduceva in un contratto: concetti questi
che erano pacifici tanto che non si sentì il bisogno di cambiare la
terminologia di un modello secolare [8]. Si distingueva poi tra conciliazione
ufficiale e conciliazione ufficiosa.
La prima era quella di cui si occupava il Codice di
procedura civile, ossia “quella che si ottiene a mediazione e stipulazione del
conciliatore designato dalla legge, appositamente richiesto dalle parti o da
una di esse” [9]. Era detta all'epoca ufficiale, perché tenuta da un pubblico
funzionario, ma l'ordinamento conosceva anche la conciliazione ufficiosa quando
il terzo "interponitore" era un amico, un vicino di casa o altro
terzo estraneo (in altre parole quella conciliazione di cui ci parla già
Platone); l’interposizione poteva realizzarsi in questo ultimo caso su richiesta
od essere spontanea; quella ufficiale invece aveva bisogno di una richiesta
ovvero di una legge che prevedesse l’intervento del Conciliatore. Era regola
generale allora come oggi [10] che la conciliazione ufficiale non escludesse
quella officiosa, né altro mezzo di componimento privato [11].
2. La
conciliazione del conciliatore
La prima conciliazione oggetto di questo commento è quella esperita
dal conciliatore. La conciliazione preventiva non contenziosa [12] del
conciliatore unitario era sempre volontaria [13] ed avveniva a porte chiuse [14]
di solito una volta alla settimana: il principio di riservatezza, fondamento
della moderna mediazione, era quindi ben presente all'epoca.
Nonostante il principio di volontarietà i
contendenti si sentivano in qualche modo costretti a partecipare in
conciliazione per non fare una cattiva impressione su quello stesso
conciliatore che avrebbe dovuto decidere la controversia in assenza di
componimento: c’era peraltro già allora chi, probabilmente sulla scorta del diritto
comparato, sollecitava di comminare una multa a chi non intendesse presentarsi [15].
In linea di principio accettare di ascoltare le
proposte di componimento del conciliatore non significava accoglierlo come
giudice: erano sempre salvi i motivi di ricusazione. Nella pratica accadeva che
le parti che si presentavano successivamente in giudizio esponevano dapprima le
loro ragioni e il conciliatore tentava
poi la conciliazione. Se il tentativo falliva, chi riteneva sussistere
motivi di ricusazione depositava prima della discussione l’istanza in
cancelleria [16].
Alla conciliazione volontaria preventiva erano
destinati i primi sette articoli del Regio decreto 25 giugno 1865. [17] E
l’art. 2125 c. 2 del Codice civile che regolava gli effetti della chiamata in
conciliazione o della presentazione volontaria. L’art. 1 del C.p.c. prevedeva
che “I conciliatori, quando ne siano richiesti, devono adoperarsi per comporre
le controversie”. Il conciliatore post-unitario interveniva dunque solo nel
caso in cui fosse richiesto [18]. La conciliazione preventiva era volontaria
solo per le parti.
Per il conciliatore era un dovere operarla [19]
salvo i casi in cui le parti non fossero residenti, domiciliati o dimoranti nel
comune, né fosse ivi l’oggetto della controversia [20] ovvero fosse riuscito
infruttuoso l’avviso a comparire di una prima richiesta; in tali casi
l’intervento del conciliatore era facoltativo, ma non era consigliabile per la
dottrina dell’epoca. Il fatto che ci si riferisca alle controversie significa
che per andare in conciliazione non erano sufficienti semplici disaccordi,
malintesi o pettegolezzi, inimicizie o odi [21], ma era necessario che vi fosse
appunto una differenza o un conflitto d’interessi tra due o più parti per
pretesi diritti o inosservanza di obbligazioni, la quale avesse già dato o
potesse dar luogo ad un processo civile.
Il Ministero della giustizia, sulla spinta delle
lagnanze dei notai [22], ritenne che in tutti i casi in cui non fosse elevata
dalle parti contestazione di sorta l’intervento fosse contrario alla legge e si
risolvesse in una usurpazione di funzioni del notaio o del cancelliere. I
verbali di conciliazione in tal caso
erano considerati nulli [23]: la dottrina invece era assolutamente contraria a
tale impostazione e riteneva che salvi i casi di cui all’art. 2 (v. in seguito)
la funzione conciliativa fosse quasi sconfinata, non conoscendo limiti di
tempo, valore, qualità dell’oggetto od indole della controversia [24].
L’art. 2 c.
1 del Codice di procedura civile stabiliva che “La conciliazione può aver luogo
quando le parti abbiano la capacità di disporre degli oggetti su cui cade la
controversia, e non si tratti di materia nella quale siano vietate le
transazioni”. La norma si riferiva sia alla conciliazione volontaria preventiva,
sia a quella giudiziale.
La capacità di disporre degli oggetti in certi casi
era soggetta ad approvazioni od omologazione [25]; e conseguentemente tali
provvedimenti erano necessari per perfezionare una conciliazione. Così ad
esempio il genitore che effettuasse la conciliazione per il figlio doveva
ottenere l’approvazione del pretore [26]
o l’autorizzazione del tribunale [27] secondo il tipo di convenzione che si
incorporava in verbale. La conciliazione fatta da un tutore o altro
amministratore, o da chi non potesse liberamente disporre degli oggetti su cui
cadeva la controversia, aveva soltanto effetto quando fosse approvata nei modi
stabiliti per la transazione [28]. I rappresentanti degli enti o corpi morali
legalmente riconosciuti potevano essere chiamati a conciliare [29] al di là
delle loro ordinarie facoltà, previo approvazione della conciliazione da chi e
come per legge [30].
In altri casi il contratto era vietato per i
rapporti tra i contraenti o dei contraenti con l’oggetto del contratto: quindi
non si poteva conciliare. Ad esempio una conciliazione tra tutore e tutelato
prima dell’approvazione del conto sarebbe stata assolutamente nulla [31].
Il conciliatore non si fermava mai di fronte
all’incapacità personale delle parti: poteva svolgere la conciliazione e poi
sospenderla al momento dell’accordo, in attesa di approvazione ovvero stendere
il verbale il quale aveva pieno effetto, salva omologazione dell’autorità
competente. E se l’omologazione non veniva concessa si determinava una nullità
relativa: vale a dire che la conciliazione poteva impugnarsi soltanto dalla
parte incapace o che la legge voleva proteggere [32], non mai dalla persona
capace o contro cui era diretta la proibizione [33].
L’art. 2 prevedeva ancora che la materia su cui non
potesse farsi transazione non potesse essere nemmeno oggetto di conciliazione. Per
materia si intendevano le cose nel significato più ampio da ricomprendere i
fatti umani [34]. Le cose che non potevano essere né di transazione né di
conciliazione erano quelle extra
commercium [35], le cose indeterminate in specie e quantità, le cose future
[36] e quelle illecite. Illecito era tutto ciò che fosse naturalmente o
moralmente o legalmente impossibile; l’impossibilità dell’oggetto toglieva ad
un contratto di qualsiasi genere la causa lecita.
Naturalmente impossibile e mancante di causa era
una contrattazione su cose che avevano cessato di esistere o su cose altrui,
una promessa d’interessi su capitale non dovuto, la costituzione di dote non
seguita da matrimonio. Moralmente impossibile era tutto ciò che era contrario a
buoni costumi.
Sebbene la conciliazione di un reato fosse per se
stessa moralmente impossibile e senza causa, era consentito ed addirittura se
ne incitava la pratica [37]: nei reati ad istanza privata toglieva di mezzo il
reato [38]; in quelli ad istanza pubblica forniva le attenuanti ed impediva la
liquidazione dei danni in un futuro giudizio; per conciliare o transigere il
reato di falso però necessitava l’omologazione del tribunale o della corte
d’appello sentito il pubblico ministero [39].
Legalmente impossibile era ciò che la legge
proibiva: ad esempio di rinunciare alla prescrizione prima che fosse compiuta [40].
La conciliazione non poteva intervenire, perché contraria all’ordine pubblico,
in materia di separazione personale [41], o su questioni di stato e delle
capacità giuridiche che ne derivano; poiché l’art. 8 C.p.c. vietava che su di
esse potesse intervenire transazione e compromesso; per esemplificare con una
conciliazione non si poteva dichiarare che un figlio naturale fosse legittimo.
Non ostava però che il conciliatore, disposta la
separazione da parte del presidente del tribunale, potesse conciliare le parti
in riferimento al contributo dovuto da entrambe [42] alle spese domestiche e
all’educazione della prole. Neppure gli era vietato disporre la separazione di
fatto dei coniugi: ciò poteva farlo anche il conciliatore siciliano e
addirittura in allora, come abbiamo visto, la richiesta delle parti si
considerava presunta; per il conciliatore del 1865 invece ci voleva comunque
una richiesta espressa. Il conciliatore doveva, se richiesto, occuparsi delle
problematiche coniugali antecedenti alla separazione [43].
Poteva così accadere che il tentativo di
conciliazione avanti al conciliatore, potesse precedere quello davanti al
presidente del tribunale: in tal caso il verbale di conciliazione estingueva il
diritto di proporre o proseguire la domanda di separazione in ordine agli
stessi fatti. Il conciliatore, inoltre, poteva convincere i coniugi a scegliere
la separazione consensuale: il che determinava una separazione meno costosa e
più riservata; il verbale di conciliazione infine, poteva ancora servire agli
effetti della riconciliazione, ossia a far cessare gli effetti della sentenza di
separazione, senza intervento dell’autorità giudiziaria [44]. Gli articoli 3, 4
e 5 del Codice di procedura civile si occupavano di come potesse iniziare una
conciliazione [45].
In sintesi la conciliazione volontaria preventiva
avveniva su chiamata: ossia la richiesta, anche verbale [46], di una parte
veniva espressa in un avviso che si notificava alla parte chiamata per mezzo
del messo comunale che lo consegnava successivamente in originale al chiamante [47]:
l’art. 8 decreto 4 marzo 2010 n. 28 ha scelto invece forme meno solenni;
prevede, infatti, che la domanda venga comunicata con ogni mezzo idoneo ad
assicurarne la ricezione, anche a cura della parte istante; una semplice
spedizione dell’avviso da parte del chiamante nel 1865 non avrebbe determinato effetto
alcuno né sulla prescrizione, né sulla decorrenza degli interessi, né ancora
sulla sospensione della perenzione del giudizio.
Era prevista in allora che la conciliazione
iniziasse anche con la presentazione simultanea delle parti [48]: il conciliatore
aveva però e comunque la facoltà di rinviare l’incontro [49]. La chiamata in
conciliazione o la presentazione volontaria determinavano comunque degli
effetti giuridici. In particolare si verificava l’interruzione della
prescrizione [50] sempreché la domanda giudiziale dell’avvisato o
dell’avvisante fosse esperita nel corso di due mesi dalla non comparsa
dell’avvisato davanti al conciliatore o dalla non seguita conciliazione [51].
L’interruzione decorreva dalla notifica dell’avviso
o da quando le parti si fossero presentati per la prima volta in conciliazione [52].
La chiamata o la presentazione in conciliazione peraltro costituivano in mora
il debitore ai fini della decorrenza degli interessi e sospendevano i termini
di perenzione del giudizio nel caso questo fosse già stato avviato. All’epoca
osservavano, in altre parole, la regola che se le parti non compivano alcun
atto entro un determinato termine [53] il giudizio andava perento: la
conciliazione sospendeva appunto tale termine di perenzione.
Sia in conciliazione volontaria sia in quella
giudiziale [54] le parti potevano essere rappresentate da mandatario
maggiorenne fornito di apposito atto di mandato generale o speciale [55], anche
se ciò si considerava poco propizio alla riuscita del tentativo; ma la
comparizione personale poteva essere
ordinata dal giudice soltanto in sede giudiziale [56]. Il mandato alle liti [57]
di per sé non dava al mandatario la facoltà di accettare la conciliazione
proposta dal conciliatore; così l’art. 13 del nuovo regolamento del 26 dicembre
1892 stabilì che il mandato dovesse contenere la facoltà di transigere e
conciliare a nome della parte.
Diversa dalla rappresentanza era l’assistenza per
cui non era richiesto mandato alcuno; essa veniva considerata peraltro benevolmente
solo in alcuni casi: in ausilio ai
ciechi e sordi, quando la parte non avesse sufficiente pratica degli affari o
non sapesse esprimere con chiarezza le proprie ragioni, ovvero si diffidasse
dell’astuzia dell’avversario. In tali casi si riteneva che la parte avrebbe
dovuto consultare un avvocato prima di partecipare alla conciliazione, ma che
era cosa migliore se ne avesse ricevuta
l’assistenza anche durante la procedura; da sola, infatti, la parte non avrebbe
potuto capire se fosse stato il caso di abbandonare o di variare i
comportamenti che gli erano stati consigliati precedentemente dal legale ed il
conciliatore sarebbe stato dunque impedito nella sua opera di composizione [58].
La problematica è quanto mai attuale, visto che
anche nella conciliazione o mediazione più moderna le parti non consigliate e/o
non assistite possono avere diverse difficoltà in relazione all’individuazione
della M.A.AN. e della P.A.A.N. [59], dei filtri da applicare alle opzioni
negoziali; per non parlare della redazione dell’accordo e della valutazione in
ordine alla eventuale richiesta di una proposta al mediatore. In altri casi,
specie se connessi con i rapporti coniugali, il conciliatore spesso isolava le
parti da ogni forza estranea e le sentiva in segreto [60] come fanno oggi
alcuni mediatori durante la mediation,
specie negli Stati Uniti; del resto lo stesso cancelliere poteva essere
allontanato e richiamato al momento dell’accordo.
La legge ritenne che se le parti o una delle parti
non comparivano il tentativo di conciliazione svaniva e poteva tenersene un
altro soltanto in presenza di una richiesta congiunta delle parti [61]. In
presenza di conciliazione con più parti [62] ed in assenza di alcune, il
conciliatore poteva tentare lo stesso la conciliazione, qualora la ritenesse di
qualche utilità ovvero non fosse persuaso del contrario: insomma doveva
dimostrare una certa flessibilità, come il mediatore moderno [63]. Perché la
conciliazione riuscisse si chiedeva al conciliatore di seguire delle regole che
appaiono di grande utilità anche oggi.
“Il punto essenziale è che il conciliatore si
penetri nella sua posizione, che non è quella di un giudice, ma di un mediatore
imparziale: il quale non si impone alle parti coll’autorità o colla
saccenteria, ma coi consigli, colla persuasione e colla famigliarità dei modi.
A parte quindi gli interrogatori, i giuramenti, e l’arsenale di tutti quegli
spedienti con cui si cerca la verità nei giudizi, salvo quelle semplici
verificazioni su cui vadano d’accordo le parti [64].
Il conciliatore si armi di pazienza nell’ascoltare
le parti, in specie se hanno anche bisogno di essere aiutate a spiegare il
proprio pensiero, lasciando loro tutto l’agio di svolgere le rispettive ragioni
e difese. Tolleri qualche sfogo ai loro risentimenti [65], perché ciò
contribuisce a renderli più accessibili a parole di pace. Composti gli animi si
compongono facilmente gli interessi; e conosciute le cause di dissenso, non è
difficile scoprire il vero punto di questione, calcolare la distanza che divide
le parti, ridurre a segno le smodate pretese, sceverare tutto quello che sa di
cavillo e di puntiglio o falso amor proprio.
Se la sua proposta di accomodamento non viene
accettata, e fatte invano le solite rimostranze sui guai, sulle spese e
l’incerto esito di qualsivoglia lite [66], il Conciliatore, cui rimanga la
speranza di un migliore successo, può con qualche pretesto rinviare le parti ad
altro giorno; officiare il mandatario perché faccia comparire la parte in
persona; proporre di rimettere a guisa di arbitrato la definizione dell’affare
a un giureconsulto, a un notaio, a un ragioniere [67] secondo i casi, invitare le parti ad un
formale compromesso in uno o più arbitri, del quale potrebbe egli stesso
erigere l’atto costitutivo in processo verbale di conciliazione” [68].
Riuscisse o meno la conciliazione le conseguenze
erano stabilite dall’art. 6 del Codice di procedura civile. Se riusciva erano
dovuti i diritti di cancelleria per il processo verbale (dai 50 centesimi a una lira e 50 per
conciliazioni oltre le 100 lire), per la scritturazione oltre le 4 facciate (38
centesimi), per la copia del verbale (dai 20 ai 23 cent.) e la notifica (30
cent.). Lo facciamo notare non per eccesso di pignoleria, ma solo per indicare
che una conciliazione costava poco meno di un’intera causa, (che eccettuata la
fase di esecuzione si assestava circa sulle lire 1 e 80 cent.) e quindi ciò non
facilitava gli accordi.
Peraltro anche la sola nomina degli arbitri era
costosa (1 lira e 13 cent.) e se interveniva nell’ambito di una conciliazione
le parti si ritrovavano a dover pagare somme davvero importanti. Lo facciamo
notare per rispondere all’obiezione tanto gettonata oggi per cui la mediazione
dovrebbe essere gratuita: la storia ricorda davvero pochi casi.
Il verbale di conciliazione doveva contenere la
convenzione [69]. Se mancava la sottoscrizione del conciliatore o del
cancelliere il verbale di conciliazione sarebbe stato una semplice scrittura
privata e non un atto autentico [70]. Se difettava la firma delle parti l’atto
sarebbe stato inesistente, a meno che non si fosse fatta menzione del motivo [71].
Il consenso verbale non aveva alcun valore [72]: se
steso l’accordo le parti rifiutavano di sottoscrivere il tentativo falliva [73];
lo stesso accadeva, se i presenza di più parti, alcune firmavano ed altre no, a
meno che trattandosi di obbligazioni divisibili le parti dichiarassero di
volerne conservare l’efficacia nei loro rapporti. Esisteva peraltro ed era
frequente anche il caso della conciliazione orale di cui si dava menzione solo
nel registro.
Anche nel caso di conciliazione non riuscita se ne
faceva menzione solo in registro [74]: non vi era dunque alcun verbale che
attestasse il fallimento [75], perché si voleva rispettare il segreto sulle
motivazioni delle parti [76] e rassicurarle di non subire pregiudizio in un
eventuale futuro giudizio: diversamente non sarebbero state leali e franche
davanti al conciliatore [77]. Si riteneva inoltre che il conciliatore e il
cancelliere non potessero essere chiamati a deporre, nemmeno nel processo
penale, per incompatibilità inerente alla funzione [78].
Il processo verbale regolarmente formato aveva
funzione di atto pubblico [79], autentico [80], giudiziale [81]: si
differenziava dall’atto notarile o dalla sentenza, per il solo fatto che era
esecutivo entro la competenza del conciliatore. Ancora oggi l’art. 322 c. 2
C.p.c. recita che il processo verbale costituisce titolo esecutivo solo entro
la competenza del giudice di pace. Si ritiene però che tale esecutività sia
limitata; siccome l’art. 612 c.p.c. prevede che l’esecuzione degli obblighi di
fare e di non fare possa essere disposta con sentenza di condanna, essa non può
essere fondata dal processo verbale del giudice di pace anche all’interno della
sua competenza. Ci limitiamo però a sottolineare che la Corte Costituzionale
con sentenza n. 336 del 12 luglio 2002 ha ritenuto debole il riferimento alla
“sentenza” (potendo l’esecuzione avvenire anche con ordinanza) ed ha precisato
che in caso di verbale di conciliazione ai sensi dell’art. 185 C.p.c. (titolo
esecutivo ex art. 474 n. 1), gli unici limiti all’esecuzione ex art. 612 C.p.c.
possono essere di carattere sopravvenuto. E quindi se il giudice non appone
limitazioni qualsivoglia esecuzione è possibile.
L’art. 7 de Codice di procedura civile del 1865
stabiliva poi che: “Quando l’oggetto della conciliazione non ecceda il valore
di lire 30, il processo verbale di conciliazione è esecutivo contro le parti
intervenute, al quale effetto il conciliatore può autorizzare la spedizione
della copia nella forma stabilita per le sentenze. Se l’oggetto della
conciliazione ecceda il valore di lire 30, o il valore sia indeterminato,
l’atto di conciliazione ha soltanto la forza di scrittura privata riconosciuta
in giudizio”. Il limite delle 30 lire fu poi elevato, come già sappiamo, a lire
100 con l’art. 12 della legge 16 giugno 1892.
Per “oggetto della conciliazione” si intendeva il
prodotto finale della conciliazione, inferiore o superiore ad una data somma:
quindi il valore della conciliazione non si determinava dalla somma domandata,
ma da quella concordata [82]. In oggi l’art. 16 (c. 7 e 8) del decreto
interministeriale 18 ottobre 2010 n. 180[83] prevede che “il valore della lite
è indicato nella domanda di mediazione a norma del codice di procedura civile.
Qualora il valore risulti indeterminato, indeterminabile, o vi sia
una notevole divergenza tra le
parti sulla stima, l'organismo decide il valore
di riferimento, sino al limite di euro 250.000, e lo comunica alle
parti. In ogni caso, se all'esito del procedimento di mediazione il valore
risulta diverso, l'importo dell'indennità è
dovuto secondo il corrispondente
scaglione di riferimento.”.
L’inciso per cui si stabiliva che l’atto di
conciliazione aveva “soltanto la forza di scrittura privata riconosciuta in
giudizio”, significava che pur mantenendo la pubblica fede dell’atto autentico,
il verbale al di sopra della competenza del conciliatore, non poteva possedere
la forza dell’atto notarile o della sentenza, cioè il privilegio dell’esecuzione
forzata. In oggi l’art. 474 n. 2 C.p.c. prevede che siano titoli esecutive le
scritture private autenticate limitatamente alle somme di denaro in esse
contenute.
Siccome la scrittura riconosciuta in giudizio ha il
medesimo valore probatorio, si ritiene che possa fondare l’espropriazione
limitatamente alle somme di denaro, ma non gli altri tipi di esecuzione, perché
il processo verbale oltre il limite di competenza non è né una sentenza, né un
atto pubblico.
Anche i verbali esecutivi comunque non potevano
porsi in esecuzione [84] sino a che il cancelliere non ne avesse spedita una
copia esecutiva che andava notificata al debitore unitamente al precetto. Dai
verbali di conciliazione non poteva nascere ipoteca giudiziale, perché essa
poteva essere prodotta dalle sole sentenze ed il verbale invece era un
contratto. Si poteva però costituire ipoteca convenzionale perché per essa
bastava l’atto pubblico; lo stesso valeva per l’ipoteca legale [85]. In forza
di verbale di conciliazione era possibile anche la trascrizione di quei
contratti od atti che dovessero rendersi pubblici per tale mezzo [86].
Nel caso in cui il verbale di conciliazione
contenesse contratti relativi ad immobile il cancelliere, entro 60 giorni,
doveva presentarlo al catasto ed all’agente delle tasse. Interessante è che
spesso si facevano conciliazioni anche per la correzione di errori catastali:
una parte chiedeva all’altra il rimborso delle imposte pagate per errore ed il
verbale con cui l’altra parte si impegnava a pagare il dovuto veniva appunto
inviato a catasto [87].
Rileviamo infine a proposito dell’art. 7 che i
verbali di conciliazione erano esenti sino a 30 lire [88] dalla tassa di
registro ed erano assoggettati all'imposta di bollo [89]; del pari tutti gli
atti tra le parti scontavano le predette imposte e quindi, sommati anche i
costi processuali, la conciliazione, lo rimarchiamo, non era esattamente a buon
mercato. Il processo verbale di conciliazione poteva essere impugnato con i
rimedi previsti dalla legge per impugnare i contratti ed in particolare, le
transazioni. Quindi venivano in capo le azioni od eccezioni di nullità, per
incompetenza, incapacità del conciliatore, per difetto di forma o per vizi
intrinseci al verbale stesso. Sino a 100 lire decideva il Conciliatore, sino a
1500 lire il pretore e sulla somma superiore il tribunale.
Il verbale era nullo se:
1) richiesto al conciliatore non competente per
territorio; 2) richiesto per la constatazione di un accordo già predisposto tra
le parti e non per la composizione di una controversia; 3) relativo ad atti
espressamente demandati dalla legge ad altro pubblico ufficiale; 4) emesso da
conciliatore che non avesse giurato o fosse cessato dalla carica o sospeso; 5)
non rispettava le forme previste dall’art. 6 C.p.c. e quelle sottese.
In tali casi però il verbale era nullo come atto
pubblico, ma poteva valere come scrittura privata se firmato da tutte le parti.
La nullità era invece piena se mancava uno dei requisiti essenziali per la
validità dei contratti in genere: a) incapacità delle parti: che poteva essere
assoluta o relativa e quindi opponibile solo dalla parte incapace; b) consenso
invalido dei contraenti: se fosse stato dato per errore, estorto con violenza,
o carpito con dolo [90]; c) assenza di un oggetto determinato; d) assenza di
causa oppure se la conciliazione fosse stata fondata su causa falsa od
illecita.
Già all’epoca si riteneva che anche nei casi in cui
la conciliazione non s’identificasse con una transazione, si vedevano estese
comunque alcune regole di quest’ultima. Così si riteneva che potesse prevedersi
nel verbale di conciliazione una pena contro chi non adempiva [91]: in altre
parole mentre negli altri contratti l’inadempiente non poteva essere obbligato
fuorché in modo alternativo, o all’esecuzione dell’obbligazione principale, od
a scontare la pena stipulata [92], nella transazione – e quindi nella
conciliazione - la pena sostituiva soltanto il compenso per i danni cagionati
dal ritardo e rimaneva fermo l’obbligo di adempiere la transazione [93].
Potevano inoltre impugnarsi di nullità le
conciliazioni, così come le transazioni nel caso: 1) di errore sulla persona 94]
o sull’oggetto della controversia [95]; 2) in cui la conciliazione fosse
fondata su documenti che fossero stati successivamente riconosciuti falsi; 3)
in cui la conciliazione fosse fatta su un titolo nullo, salvo che le parti
avessero espressamente trattato della nullità; 4) in cui la conciliazione
avesse avuto luogo sopra una lite che fosse finita con sentenza passata in
giudicato, della quale le parti o una di esse non avesse avuto notizia.
La scoperta di documenti nuovi successivi alla
conciliazione giocava nel senso che poteva essere impugnata in caso di
occultamento, sempre che la conciliazione fosse relativa a tutti gli affari intercorsi
tra le parti. Nel caso di conciliazione su un unico oggetto invece doveva
risultare provato dai documenti che una delle parti non aveva alcun diritto
sullo stesso oggetto.
In conclusione si riportano i dati sulla
conciliazione per il 1880 [96] della relazione Zanardelli del 1882. Gli 8332
conciliatori del Regno si occuparono di 1.075.246 controversie. Gli affari da
loro trattati aumentarono dal 1875, ma nel decennio anteriore vi erano in
proporzione più conciliazioni. Le loro sentenze costituirono il 70,84 per cento
del totale delle sentenze emanate da organi giudiziari [97]. Su 1.075.246 di controversie la conciliazione preventiva
si riferì a 224.461 controversie e quindi a circa 1/5 dell’intero contenzioso. Di
queste 224.461 controversie in sede preventiva vennero conciliate 122.034 e
dunque 54 controversie su 100 [98].
In sede contenziosa per 850.785 controversie
vennero conciliate o transatte 223.835 cause. Ossia 26 su 100 controversie
cessarono per intervenuta conciliazione. Il totale delle conciliazioni ammontò
dunque a 345.869, ossia a 32 conciliazioni su 100 e dunque ad 1/3 degli affari
di cui ebbero ad occuparsi i conciliatori. Si deve aggiungere che nelle
province meridionali pochissimi erano gli affari che si presentavano al
conciliatore in sede non contenziosa, mentre nelle regioni del Nord si
affrontavano in sede preventiva un maggiore numero di affari. Tuttavia a Napoli
le conciliazioni erano 82 su 100, in Sicilia 91 su 100, mentre al Settentrione
si attestavano al 50 per cento.
Il contenzioso al Sud era invece assai maggiore di
quello del Nord (per 100 abitanti al Nord c’erano 2,08 cause, mentre a Napoli
5,26 e in Sicilia 4,59), ma in sede contenziosa al Sud si conciliavano solo il
6 per 100 delle cause per il Napoletano e l’11 per cento in Sicilia, contro il
53 per cento del Settentrione.
3. La
conciliazione in tema di separazione dei coniugi
La conciliazione ufficiale investiva anche altri
funzionari dell’ordine giudiziario o amministrativo che avevano dunque il
potere o il dovere di tentare la conciliazione, volontaria o giudiziale. In
primo luogo aveva questo incombente il pretore, incluso tra i pubblici
funzionari che svolgevano compiti di conciliazione ufficiale: tuttavia essa non
veniva praticata dalle parti perché si riteneva che il verbale pretorile non
avesse efficacia esecutiva; di qui si preferiva di gran lunga una sentenza di
condanna [99]. Tentativo di una certa rilevanza era invece quello espletato dal presidente del
tribunale in materia di separazione.
La separazione che dai tempi di Teodosio si
chiamava ripudio, aveva in passato cause molteplici ed incerte. Così il
legislatore dell’Ottocento stabilì che le cause dovessero essere determinate
dalla legge [100]. La separazione poteva essere domandata per causa di adulterio
o di volontario abbandono, di eccessi, sevizie, minacce e ingiurie gravi [101].
Non era ammessa però per l'adulterio del marito, se non quando mantenesse
concubina in casa o notoriamente in altro luogo, oppure concorressero
circostanze tali che il fatto costituiva una ingiuria grave alla moglie [102].
Altra causa di separazione era quella di condanna
alla pena criminale successiva al matrimonio [103]. La moglie poteva chiedere
inoltre la separazione quando il marito non fissava la sua residenza senza un
giusto motivo o la fissasse non secondo la sua condizione economica [104].
Il divorzio non fu ammesso invece nel Codice del
1865 “perché secondo il concetto del
medesimo il matrimonio è un atto civile che interessa profondamente lo Stato; e
perché è necessario che il matrimonio sia contratto colla severità che deriva
dal concetto dell'indissolubilità; e perché infine esso ripugna assolutamente
ai nostri costumi. Il Codice civile esclude dunque affatto l'idea del divorzio,
ossia dello scioglimento del vincolo matrimoniale, non per motivi religiosi, ma
per motivi dettati dall'interesse della società civile, ed ammette soltanto la
separazione personale dei coniugi per cause determinate. La sola morte, ultima
linea delle cose umane, romperà il nodo che strinse gli sposi. Il mutuo loro
consenso non varrà neppure a farlo cessare. Non mancarono neppure nella
circostanza della discussione di questo Codice i difensori della legge del
divorzio, ripetendo i soliti argomenti contro l'indissolubilità del vincolo matrimoniale.
Ma a tutti risponde vittoriosamente il dotto Relatore...” [105]. Il divorzio fu
invece ammesso dal Codice civile francese, ma anche in Francia venne abrogato
nel 1816.
Nell'ordinamento italiano ottocentesco il tentativo
preliminare di conciliazione giudiziale era dunque obbligatorio [106] per le
cause di separazione dei coniugi [107]: di esso [108] si occupava il presidente
del tribunale di domicilio del marito [109], che fissava l’udienza [110] su
presentazione del cancelliere che doveva avvenire il giorno successivo al
deposito [111]. Le parti dovevano comparire personalmente, e non potevano farsi
assistere da procuratori, né da consulenti [112]. E ciò per evitare che
aumentasse lo stato di irritazione dei coniugi [113]. Il tentativo in questa materia
era questione di ordine pubblico.
E di conseguenza se non compariva la parte istante
la domanda di separazione non aveva effetto, ma il presidente la condannava a
pagare le spese dell’altra parte comparsa [114]. Se era la resistente a non
comparire, il presidente poteva condannarla a pena pecuniaria non maggiore di
lire 100 ed ordinare altresì che fosse nuovamente citata. In tal ultimo caso
dunque la sanzione era rimessa alla discrezionalità del giudice e così
l’eventualità di una rinnovazione della citazione [115].
Tale previsione è per noi decisamente interessante
giacché un meccanismo analogo, anche se sempre facoltativo per il giudice ed in
relazione ad entrambi le parti, verrà introdotto nell’art. 40 c. 5 del decreto
legislativo 17 gennaio 2003 n. 5 nell’ambito della conciliazione societaria [116].
Simile ratio aveva l’art. 8 c. 5 del decreto legislativo 4 marzo 2010 n. 28
censurato forse affrettatamente dalla Consulta. C’è però da aggiungere che nel
processo di separazione ottocentesco la disciplina non era poi così arcigna
poiché la parte non comparsa poteva giustificare un impedimento legittimo e
allora il giudice revocava la condanna e stabiliva un altro giorno per la
comparizione delle parti.
All’udienza il presidente doveva “avanti tutto” sentire
separatamente l'uno e l'altro coniuge, e fare in seguito ad ambedue “le
rimostranze” [117] che credesse atte a riconciliarli. Quindi si prevedeva la
possibilità di sedute separate come nella conciliazione davanti al
conciliatore, e di una seduta “congiunta” nella quale si procurava la vera e
propria riconciliazione con un potere manageriale, oggi si direbbe, del giudice
assai pregnante[118]: è questo un altro schema che si ritroverà nella moderna
mediazione.
Addirittura si riteneva che il presidente potesse
sentire le parti anche a più riprese e si potesse recare a casa di uno dei
coniugi se indisposto[119]: la riconciliazione dei coniugi era primario
interesse della famiglia, ma in primo luogo della comunità e quindi la procedura di un
tentativo preso con grande serietà,
doveva dimostrare la massima flessibilità [120]. Proprio nell’intento di
rendere sempre più efficace lo strumento sarebbe auspicabile che la
“conciliazione navetta” che anche noi conosciamo, fosse estesa anche ad altri
tentativi di conciliazione presenti nel nostro ordinamento [121].
La disciplina è simile dunque anche nel nostro
ordinamento dato che “All'udienza di comparizione il presidente deve sentire i
coniugi prima separatamente e poi congiuntamente, tentandone la conciliazione” [122];
ma in quella ottocentesca forse lo schema era in qualche modo “valutativo”
viste le “rimostranze” [123] cui poteva seguire la “riconciliazione”, mentre
attualmente si legge che il giudice “sente” le parti ed è quindi maggiormente
calato in una conciliazione facilitativa [124].
Se la riconciliazione riusciva, il presidente ne
faceva risultare da processo verbale [125]. Essa comportava l’immediata ed
assoluta estinzione del diritto di chiedere la separazione e l’abbandono della
causa proposta [126]. Se la riconciliazione non riusciva, o la parte citata non
compariva, il presidente rimetteva con decreto le parti avanti il tribunale, e
dava i provvedimenti temporanei che ravvisava urgenti nell'interesse dei
coniugi e della prole [127], salvo comminare le multe predette per il caso di
non comparizione. Nel caso di riuscita del tentativo non si era però sicuri che
il verbale avesse efficacia esecutiva. Analoghe disposizioni erano previste per
il caso di separazione volontaria (la nostra consensuale) [128].
Il presidente del tribunale doveva innanzi tutto
sentire, nel giorno da lui stabilito, sul ricorso delle parti, l'uno e l'altro
coniuge separatamente e fare in seguito ad ambedue le rimostranze che credesse
atte a riconciliarli. Se la riconciliazione riusciva, si faceva processo
verbale, come nel giudizio di separazione non volontaria. Se la conciliazione
non riusciva, si faceva nelle stesse forme processo verbale del consenso dato
dai coniugi per la separazione.
Il processo verbale doveva inoltre esprimere le
condizioni della separazione riguardo ai coniugi e alla prole, le quali però
potevano modificarsi a richiesta delle parti e secondo le circostanze [129]. La
separazione volontaria doveva essere omologata [130] in camera di consiglio su
relazione del presidente; stessa cosa avviene oggi alla nostra consensuale [131]:
ciò per poter proteggere gli interessi dei terzi, ma anche per evitare che
vengano messi in discussione i principi fondamentali dell’ordinamento [132].
4. Altri
tipi di conciliazione ufficiale
Sempre il presidente del tribunale doveva procurare
di conciliare le parti prima di rimetterle all’autorità giudiziaria nelle cause
di opposizione al provvedimento che ordina il pagamento delle specifiche di
avvocati, notai, procuratori, uscieri ecc. [133]. Nondimeno effettuava
conciliazione ufficiale il notaio quando veniva delegato dal giudice alle
operazioni delle divisioni giudiziali.
Sempre di conciliazione ufficiale trattasi in
relazione all'attività di composizione del Consiglio notarile e al Consiglio
dell'ordine degli avvocati (o del Consiglio di disciplina dei procuratori) in
relazione alle controversie tra membri e tra membri e terzi [134]. Una forma
particolare conciliazione ufficiale veniva tenuta dalla Commissione del
gratuito patrocinio: la richiesta era comunicata alla parte avversa che poteva
presenziare per contestare la povertà dell'avversario ovvero per dare
spiegazioni sul merito della causa o ancora per conciliare. Detta conciliazione
però era simile alla nostra di diritto comune: si dava atto solo della
conciliazione e per la convenzione era necessario andare o da un notaio o dal
Conciliatore[135].
Anche l'autorità portuale doveva provvedere alla
conciliazione [136]: sotto alle 200 lire essa poteva decidere, anche in assenza
della parte debitamente chiamata, oppure comporre proprio come il conciliatore
ed il verbale aveva in tal caso effetti esecutivi. Per le questioni di valore
superiore alle 200 lire il tentativo si
conciliazione era obbligatorio pena l'improcedibilità dell'azione [137].
Se esso non riusciva i Capitani ed Ufficiali del
porto stendevano verbale da trasmettere al tribunale “colla perizia cui
avessero stimato di procedere per l’accertamento dei fatti e col loro parere”. Questo
tipo di conciliazione ha tratti che verranno ripresi dall'attuale 696 bis C.p.c. [138] ed anche
dal procedimento di cui al decreto 4 marzo 2010, n. 28, sino a che almeno non è
stato censurato dalla Consulta [139].
Ne ritroviamo una analoga anche nell’attuale Codice
della navigazione [140] ove si stabilisce che il comandante del porto debba
svolgere un amichevole componimento [141] per sinistri marittimi [142] anche se
il valore sia sopra le cento mila lire. Sempre davanti al comandante del porto
si svolgev [143] poi un tentativo di conciliazione giudiziale peculiare per il
caso di esito infruttuoso [144]. I nostri consoli svolgevano poi all'estero
conciliazione ufficiale tra nazionali e fra questi ed i sudditi esteri ovvero
anche tra nazioni [145]. Ancora oggi il tentativo di amichevole composizione [146]
e l’arbitrato sono incombenze del corpo consolare tra cittadini e tra cittadini
e non cittadini.
Vi erano poi alcuni funzionari amministrativi che
si occupavano a vario titolo di conciliazione ufficiale. Gli ufficiali di
pubblica sicurezza (compresi i sindaci) componevano i privati dissidi [147] a
richiesta delle parti e stendevano verbali[148] con convenzioni che potevano
essere prodotte in giudizio e facevano pubblica fede [149]. I sindaci con
l'assistenza della giunta comunale componevano amichevolmente i dissidi in
materia di espropriazione e le contravvenzioni al codice della strada ed ai
regolamenti locali: nel caso di contravvenzioni i contravventori pagavano
un'oblazione che escludeva il procedimento [150].
Gli ufficiali che ricevevano le querele dovevano
avvertire [151] poi la parte offesa del diritto che le competeva di desistere [152],
diritto che poteva peraltro essere azionato in ogni stato e grado del processo
di fronte al magistrato [153]: a seguito di conciliazione vi era una
"dichiarazione di non essere luogo a procedimento" [154].
Ancora la deputazione di borsa doveva occuparsi
dell'amichevole componimento delle questioni insorte in conseguenza degli
affari conclusi in borsa: si noti che le deputazioni incaricate di sorvegliare
la borsa e provvedere all'esecuzione dei regolamenti, erano nominate
annualmente dalla Camera di commercio. Abbiamo qui dunque le antenate di quelle
commissioni arbitrali e conciliative a cui la legge di riforma delle camere di
commercio del 1993 ha affidato la risoluzione delle controversie tra imprese e
tra imprese e consumatori ed utenti.
5. Il
verbale di conciliazione nell’Italia Unita
In ultimo riteniamo qui possa essere cosa gradita
riportare la bozza del verbale di riuscita conciliazione che veniva utilizzata
dai Conciliatori del Regno [155]. Per molti aspetti, infatti, potrebbe essere
riutilizzato in qualche punto, con gli opportuni aggiustamenti, anche dal
mediatore di cui al decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28.
(Per il modello di verbale e per le note, vedi post
nel blog)