lunedì 31 dicembre 2012

Buon anno da FormaMediAzione!

Buon Anno a tutti da FormaMediAzione...

E per salutarci come si deve riporto un pensiero di Rita Levi Montalcini... per ricordare una grande persona:  
"La mia intelligenza? Più che mediocre. I miei unici meriti sono stati impegno ed ottimismo".

Tanti auguri da Stefano Cera.

Photo credits

venerdì 28 dicembre 2012

Niente “penalità” per chi non partecipa (di Marco Marinaro)


Fonte: Il Sole 24 ore (Link)

24 dicembre 2012

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La sentenza 272 del 2012 con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità della mediazione obbligatoria sotto il profilo dell'eccesso di delega legislativa porta con sé uno strascico di incostituzionalità "consequenziali" o "derivate". Infatti, la Consulta, oltre ad avere dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 5, comma 1, del decreto legislativo 28 del 2010, ha deciso, «in via consequenziale», come si legge nella sentenza, anche l'incostituzionalità di alcune norme dello stesso decreto legislativo.

In particolare, sono oggetto di censura non solo norme direttamente connesse all'articolo 5, comma 1, che ha previsto la mediazione obbligatoria, ma anche disposizioni che vengono fatte cadere in via derivata, anche se non sono oggetto di specifica impugnazione.

Più nel dettaglio, è il caso, in primo luogo, dell'articolo 8, comma 5, del decreto legislativo 28/2010, composto di due norme diverse. Il primo periodo, infatti, precisa che «dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione il giudice può desumere argomenti di prova nel successivo giudizio ai sensi dell'articolo 116, secondo comma, del Codice di procedura civile». Si tratta di una disposizione che la dottrina aveva ritenuto di poter applicare a tutti i procedimenti di mediazione e non solo a quelli imposti come condizione di procedibilità per legge. 

La Consulta ha però assunto una posizione diversa, dichiarando l'incostituzionalità della norma. L'articolo 8, comma 5, del decreto legislativo 28/2010, al secondo periodo, dispone poi che «il giudice condanna la parte costituita che, nei casi previsti dall'articolo 5, non ha partecipato al procedimento senza giustificato motivo, al versamento all'entrata del bilancio dello Stato di una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio». In questo caso, il riferimento, fatto dalla norma, all'articolo 5 del decreto legislativo 28/2010 ha portato la Consulta a decidere l'illegittimità. Questo anche se, dato che non rimanda al comma 1 dell'articolo 5, la disposizione non rimandava solo all'obbligatorietà legale, ma anche alle altre modalità di accesso alla mediazione previste dall'articolo 5: su invito del giudice (comma 2) e per contratto (comma 5).

Tra le incostituzionalità derivate dichiarate dalla Consulta ci sono poi anche l'articolo 11, comma 1, ultimo periodo (che prevede che il mediatore informi le parti sul contenuto dell'articolo 13), e l'articolo 13 (che disciplina la ripartizione delle spese processuali in caso di mancata accettazione della proposta di mediazione) del decreto legislativo 28/2010. In particolare, l'articolo 13 esclude, quando il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto della proposta di mediazione, la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice che ha rifiutato la proposta, riferibili al periodo successivo alla sua formulazione; anzi: prevede che la parte vincitrice sia condannata al rimborso delle spese sostenute dalla parte soccombente relative allo stesso periodo e al versamento allo Stato di un'altra somma pari al contributo unificato. 

La Corte costituzionale ha dunque collegato strettamente queste norme all'articolo 5, comma 1, del decreto legislativo 28/ 2010 – in via interpretativa: nel testo delle disposizioni non ci sono richiami espliciti –, stabilendo un nesso tra la mediazione obbligatoria, la proposta del mediatore e le conseguenze sanzionatorie derivanti dalla mancata accettazione della stessa secondo i parametri fissati.

Saper ascoltare

Dal volume Mediare la conflittualità di I. Buccioni - A.M. Palma - I. Venturi, Franco Angeli, Milano, 2012, p.86 riprendo un ottimo spunto sull'ascolto della filosofa L. Irigaray.
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"Saper ascoltare presuppone che chi ascolta 'non sappia' l'altro, non lo ascolti nell'ambito di una scienza o di una verità esistenti. 'Io non ti so'. 'Non ti riduco alla mia esistenza, alla mia esperienza, al già conosciuto da me'.
Ti ascolto.

Ti ascolto, percepisco ciò che dici, vi sono attento, cerco di sentire in quello che dici, la tua intenzione.
Questo non significa 'ti capisco, ti conosco' quindi non ho bisogno di ascoltarti e posso persino prescriverti un divenire.

No, ti ascolto come colui e ciò che non conosco ancora, a partire da una libertà e una disponibilità che riservo per questo avvenimento. Ti ascolto, lascia spazio per il 'non ancora codificato', per il silenzio; preserva un luogo di esistenza di iniziativa, di libera intenzionalità, d sostegno al tuo divenire.

Ti ascolto come la rivelazione di una 'verità non ancora manifestata': la tua!
Per questo ti offro anche del silenzio dove altre verità possono emergere.
Questo silenzio non è ostile nè restrittivo. E' disponibilità che niente e nessuno occupano o pre-occupano a parte in te in questo momento.
E' apertura a te".

(Luce Irigaray, Amo a te, Bollate Boringhieri, Torino, 1993).
In una parola: splendido! Buona lettura... Stefano

mercoledì 26 dicembre 2012

Un po' di storia - La conciliazione nell'Italia unita


Dal blog Mediare senza confini di Carlo Alberto Calcagno (link)
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1. Definizione

Il legislatore dell’Italia unita ha adottato, come si è detto, in particolare il Codice di rito etneo ed in qualche modo anche la sistematica [1], ritenendo che la conciliazione unitamente all’arbitrato [2] fossero i veri mezzi dati in mano a chi volesse prevenire o troncare un giudizio. Il processo (“la ragione pubblica”) era cioè considerato come un sussidio “di ogni mezzo volontario inteso ad antivenire e a cessare le liti”: così precisava la relazione al Re del Guardiasigilli Vacca.

Comporre le controversie era considerato il più nobile ufficio del conciliatore e significava sia prevenire una lite che fosse in procinto di nascere, sia terminarne amichevolmente una già incominciata. La composizione delle controversie si definiva appunto conciliazione e consisteva nel riunire gli animi discordi delle parti e ricomporli nell’armonia sociale: tanta teorie americane sulla funzione della mediation partono dunque da molto lontano [3].

La conciliazione supponeva l’interposizione di un terzo, il quale si adoperasse “a far cessare la dissonanza delle rispettive pretese con una stipulazione tale da rimanerne soddisfatte entrambe le parti, o per convinzione del proprio torto o per amore di tranquillità, con o senza sacrificio reciproco d’una porzione dei diritti controvertiti” [4]. Non è chi non veda qui i principi basilari di questo tipo di negoziazione: l’apparenza di contrarietà delle posizioni giuridiche, la presenza necessaria di un terzo, la soddisfazione di entrambe le parti, la non necessaria coincidenza dell’accordo conciliativo con lo schema della transazione [5].

In generale la conciliazione era definita “come un contratto [6] con cui le parti, a mediazione di persona terza, compongono, ossia definiscono all’amichevole le loro controversie” [7]. Definizione questa mirabile poiché mostra la perfetta conoscenza che aveva la dottrina del tempo circa il fatto che la mediazione fosse in primo luogo una procedura, e la conciliazione il suo frutto ove si traduceva in un contratto: concetti questi che erano pacifici tanto che non si sentì il bisogno di cambiare la terminologia di un modello secolare [8]. Si distingueva poi tra conciliazione ufficiale e conciliazione ufficiosa.

La prima era quella di cui si occupava il Codice di procedura civile, ossia “quella che si ottiene a mediazione e stipulazione del conciliatore designato dalla legge, appositamente richiesto dalle parti o da una di esse” [9]. Era detta all'epoca ufficiale, perché tenuta da un pubblico funzionario, ma l'ordinamento conosceva anche la conciliazione ufficiosa quando il terzo "interponitore" era un amico, un vicino di casa o altro terzo estraneo (in altre parole quella conciliazione di cui ci parla già Platone); l’interposizione poteva realizzarsi in questo ultimo caso su richiesta od essere spontanea; quella ufficiale invece aveva bisogno di una richiesta ovvero di una legge che prevedesse l’intervento del Conciliatore. Era regola generale allora come oggi [10] che la conciliazione ufficiale non escludesse quella officiosa, né altro mezzo di componimento privato [11].

2. La conciliazione del conciliatore

La prima conciliazione  oggetto di questo commento è quella esperita dal conciliatore. La conciliazione preventiva non contenziosa [12] del conciliatore unitario era sempre volontaria [13] ed avveniva a porte chiuse [14] di solito una volta alla settimana: il principio di riservatezza, fondamento della moderna mediazione, era quindi ben presente all'epoca.

Nonostante il principio di volontarietà i contendenti si sentivano in qualche modo costretti a partecipare in conciliazione per non fare una cattiva impressione su quello stesso conciliatore che avrebbe dovuto decidere la controversia in assenza di componimento: c’era peraltro già allora chi, probabilmente sulla scorta del diritto comparato, sollecitava di comminare una multa a chi non intendesse presentarsi [15].

In linea di principio accettare di ascoltare le proposte di componimento del conciliatore non significava accoglierlo come giudice: erano sempre salvi i motivi di ricusazione. Nella pratica accadeva che le parti che si presentavano successivamente in giudizio esponevano dapprima le loro ragioni e il conciliatore tentava  poi la conciliazione. Se il tentativo falliva, chi riteneva sussistere motivi di ricusazione depositava prima della discussione l’istanza in cancelleria [16].

Alla conciliazione volontaria preventiva erano destinati i primi sette articoli del Regio decreto 25 giugno 1865. [17] E l’art. 2125 c. 2 del Codice civile che regolava gli effetti della chiamata in conciliazione o della presentazione volontaria. L’art. 1 del C.p.c. prevedeva che “I conciliatori, quando ne siano richiesti, devono adoperarsi per comporre le controversie”. Il conciliatore post-unitario interveniva dunque solo nel caso in cui fosse richiesto [18]. La conciliazione preventiva era volontaria solo per le parti.

Per il conciliatore era un dovere operarla [19] salvo i casi in cui le parti non fossero residenti, domiciliati o dimoranti nel comune, né fosse ivi l’oggetto della controversia [20] ovvero fosse riuscito infruttuoso l’avviso a comparire di una prima richiesta; in tali casi l’intervento del conciliatore era facoltativo, ma non era consigliabile per la dottrina dell’epoca. Il fatto che ci si riferisca alle controversie significa che per andare in conciliazione non erano sufficienti semplici disaccordi, malintesi o pettegolezzi, inimicizie o odi [21], ma era necessario che vi fosse appunto una differenza o un conflitto d’interessi tra due o più parti per pretesi diritti o inosservanza di obbligazioni, la quale avesse già dato o potesse dar luogo ad un processo civile.

Il Ministero della giustizia, sulla spinta delle lagnanze dei notai [22], ritenne che in tutti i casi in cui non fosse elevata dalle parti contestazione di sorta l’intervento fosse contrario alla legge e si risolvesse in una usurpazione di funzioni del notaio o del cancelliere. I verbali di conciliazione  in tal caso erano considerati nulli [23]: la dottrina invece era assolutamente contraria a tale impostazione e riteneva che salvi i casi di cui all’art. 2 (v. in seguito) la funzione conciliativa fosse quasi sconfinata, non conoscendo limiti di tempo, valore, qualità dell’oggetto od indole della controversia [24].

L’art. 2  c. 1 del Codice di procedura civile stabiliva che “La conciliazione può aver luogo quando le parti abbiano la capacità di disporre degli oggetti su cui cade la controversia, e non si tratti di materia nella quale siano vietate le transazioni”. La norma si riferiva sia alla conciliazione volontaria preventiva, sia a quella giudiziale.

La capacità di disporre degli oggetti in certi casi era soggetta ad approvazioni od omologazione [25]; e conseguentemente tali provvedimenti erano necessari per perfezionare una conciliazione. Così ad esempio il genitore che effettuasse la conciliazione per il figlio doveva ottenere  l’approvazione del pretore [26] o l’autorizzazione del tribunale [27] secondo il tipo di convenzione che si incorporava in verbale. La conciliazione fatta da un tutore o altro amministratore, o da chi non potesse liberamente disporre degli oggetti su cui cadeva la controversia, aveva soltanto effetto quando fosse approvata nei modi stabiliti per la transazione [28]. I rappresentanti degli enti o corpi morali legalmente riconosciuti potevano essere chiamati a conciliare [29] al di là delle loro ordinarie facoltà, previo approvazione della conciliazione da chi e come per legge [30].

In altri casi il contratto era vietato per i rapporti tra i contraenti o dei contraenti con l’oggetto del contratto: quindi non si poteva conciliare. Ad esempio una conciliazione tra tutore e tutelato prima dell’approvazione del conto sarebbe stata assolutamente nulla [31].

Il conciliatore non si fermava mai di fronte all’incapacità personale delle parti: poteva svolgere la conciliazione e poi sospenderla al momento dell’accordo, in attesa di approvazione ovvero stendere il verbale il quale aveva pieno effetto, salva omologazione dell’autorità competente. E se l’omologazione non veniva concessa si determinava una nullità relativa: vale a dire che la conciliazione poteva impugnarsi soltanto dalla parte incapace o che la legge voleva proteggere [32], non mai dalla persona capace o contro cui era diretta la proibizione [33].

L’art. 2 prevedeva ancora che la materia su cui non potesse farsi transazione non potesse essere nemmeno oggetto di conciliazione. Per materia si intendevano le cose nel significato più ampio da ricomprendere i fatti umani [34]. Le cose che non potevano essere né di transazione né di conciliazione erano quelle extra commercium [35], le cose indeterminate in specie e quantità, le cose future [36] e quelle illecite. Illecito era tutto ciò che fosse naturalmente o moralmente o legalmente impossibile; l’impossibilità dell’oggetto toglieva ad un contratto di qualsiasi genere la causa lecita.

Naturalmente impossibile e mancante di causa era una contrattazione su cose che avevano cessato di esistere o su cose altrui, una promessa d’interessi su capitale non dovuto, la costituzione di dote non seguita da matrimonio. Moralmente impossibile era tutto ciò che era contrario a buoni costumi.

Sebbene la conciliazione di un reato fosse per se stessa moralmente impossibile e senza causa, era consentito ed addirittura se ne incitava la pratica [37]: nei reati ad istanza privata toglieva di mezzo il reato [38]; in quelli ad istanza pubblica forniva le attenuanti ed impediva la liquidazione dei danni in un futuro giudizio; per conciliare o transigere il reato di falso però necessitava l’omologazione del tribunale o della corte d’appello sentito il pubblico ministero [39].

Legalmente impossibile era ciò che la legge proibiva: ad esempio di rinunciare alla prescrizione prima che fosse compiuta [40]. La conciliazione non poteva intervenire, perché contraria all’ordine pubblico, in materia di separazione personale [41], o su questioni di stato e delle capacità giuridiche che ne derivano; poiché l’art. 8 C.p.c. vietava che su di esse potesse intervenire transazione e compromesso; per esemplificare con una conciliazione non si poteva dichiarare che un figlio naturale fosse legittimo.

Non ostava però che il conciliatore, disposta la separazione da parte del presidente del tribunale, potesse conciliare le parti in riferimento al contributo dovuto da entrambe [42] alle spese domestiche e all’educazione della prole. Neppure gli era vietato disporre la separazione di fatto dei coniugi: ciò poteva farlo anche il conciliatore siciliano e addirittura in allora, come abbiamo visto, la richiesta delle parti si considerava presunta; per il conciliatore del 1865 invece ci voleva comunque una richiesta espressa. Il conciliatore doveva, se richiesto, occuparsi delle problematiche coniugali antecedenti alla separazione [43].

Poteva così accadere che il tentativo di conciliazione avanti al conciliatore, potesse precedere quello davanti al presidente del tribunale: in tal caso il verbale di conciliazione estingueva il diritto di proporre o proseguire la domanda di separazione in ordine agli stessi fatti. Il conciliatore, inoltre, poteva convincere i coniugi a scegliere la separazione consensuale: il che determinava una separazione meno costosa e più riservata; il verbale di conciliazione infine, poteva ancora servire agli effetti della riconciliazione, ossia a far cessare gli effetti della sentenza di separazione, senza intervento dell’autorità giudiziaria [44]. Gli articoli 3, 4 e 5 del Codice di procedura civile si occupavano di come potesse iniziare una conciliazione [45].

In sintesi la conciliazione volontaria preventiva avveniva su chiamata: ossia la richiesta, anche verbale [46], di una parte veniva espressa in un avviso che si notificava alla parte chiamata per mezzo del messo comunale che lo consegnava successivamente in originale al chiamante [47]: l’art. 8 decreto 4 marzo 2010 n. 28 ha scelto invece forme meno solenni; prevede, infatti, che la domanda venga comunicata con ogni mezzo idoneo ad assicurarne la ricezione, anche a cura della parte istante; una semplice spedizione dell’avviso da parte del chiamante nel 1865 non avrebbe determinato effetto alcuno né sulla prescrizione, né sulla decorrenza degli interessi, né ancora sulla sospensione della perenzione del giudizio.

Era prevista in allora che la conciliazione iniziasse anche con la presentazione simultanea delle parti [48]: il conciliatore aveva però e comunque la facoltà di rinviare l’incontro [49]. La chiamata in conciliazione o la presentazione volontaria determinavano comunque degli effetti giuridici. In particolare si verificava l’interruzione della prescrizione [50] sempreché la domanda giudiziale dell’avvisato o dell’avvisante fosse esperita nel corso di due mesi dalla non comparsa dell’avvisato davanti al conciliatore o dalla non seguita conciliazione [51].

L’interruzione decorreva dalla notifica dell’avviso o da quando le parti si fossero presentati per la prima volta in conciliazione [52]. La chiamata o la presentazione in conciliazione peraltro costituivano in mora il debitore ai fini della decorrenza degli interessi e sospendevano i termini di perenzione del giudizio nel caso questo fosse già stato avviato. All’epoca osservavano, in altre parole, la regola che se le parti non compivano alcun atto entro un determinato termine [53] il giudizio andava perento: la conciliazione sospendeva appunto tale termine di perenzione.

Sia in conciliazione volontaria sia in quella giudiziale [54] le parti potevano essere rappresentate da mandatario maggiorenne fornito di apposito atto di mandato generale o speciale [55], anche se ciò si considerava poco propizio alla riuscita del tentativo; ma la comparizione personale  poteva essere ordinata dal giudice soltanto in sede giudiziale [56]. Il mandato alle liti [57] di per sé non dava al mandatario la facoltà di accettare la conciliazione proposta dal conciliatore; così l’art. 13 del nuovo regolamento del 26 dicembre 1892 stabilì che il mandato dovesse contenere la facoltà di transigere e conciliare a nome della parte.

Diversa dalla rappresentanza era l’assistenza per cui non era richiesto mandato alcuno; essa veniva considerata peraltro benevolmente solo in alcuni casi:  in ausilio ai ciechi e sordi, quando la parte non avesse sufficiente pratica degli affari o non sapesse esprimere con chiarezza le proprie ragioni, ovvero si diffidasse dell’astuzia dell’avversario. In tali casi si riteneva che la parte avrebbe dovuto consultare un avvocato prima di partecipare alla conciliazione, ma che era cosa migliore se ne avesse  ricevuta l’assistenza anche durante la procedura; da sola, infatti, la parte non avrebbe potuto capire se fosse stato il caso di abbandonare o di variare i comportamenti che gli erano stati consigliati precedentemente dal legale ed il conciliatore sarebbe stato dunque impedito nella sua opera di composizione [58].

La problematica è quanto mai attuale, visto che anche nella conciliazione o mediazione più moderna le parti non consigliate e/o non assistite possono avere diverse difficoltà in relazione all’individuazione della M.A.AN. e della P.A.A.N. [59], dei filtri da applicare alle opzioni negoziali; per non parlare della redazione dell’accordo e della valutazione in ordine alla eventuale richiesta di una proposta al mediatore. In altri casi, specie se connessi con i rapporti coniugali, il conciliatore spesso isolava le parti da ogni forza estranea e le sentiva in segreto [60] come fanno oggi alcuni mediatori durante la mediation, specie negli Stati Uniti; del resto lo stesso cancelliere poteva essere allontanato e richiamato al momento dell’accordo.

La legge ritenne che se le parti o una delle parti non comparivano il tentativo di conciliazione svaniva e poteva tenersene un altro soltanto in presenza di una richiesta congiunta delle parti [61]. In presenza di conciliazione con più parti [62] ed in assenza di alcune, il conciliatore poteva tentare lo stesso la conciliazione, qualora la ritenesse di qualche utilità ovvero non fosse persuaso del contrario: insomma doveva dimostrare una certa flessibilità, come il mediatore moderno [63]. Perché la conciliazione riuscisse si chiedeva al conciliatore di seguire delle regole che appaiono di grande utilità anche oggi.     

“Il punto essenziale è che il conciliatore si penetri nella sua posizione, che non è quella di un giudice, ma di un mediatore imparziale: il quale non si impone alle parti coll’autorità o colla saccenteria, ma coi consigli, colla persuasione e colla famigliarità dei modi. A parte quindi gli interrogatori, i giuramenti, e l’arsenale di tutti quegli spedienti con cui si cerca la verità nei giudizi, salvo quelle semplici verificazioni su cui vadano d’accordo le parti [64].

Il conciliatore si armi di pazienza nell’ascoltare le parti, in specie se hanno anche bisogno di essere aiutate a spiegare il proprio pensiero, lasciando loro tutto l’agio di svolgere le rispettive ragioni e difese. Tolleri qualche sfogo ai loro risentimenti [65], perché ciò contribuisce a renderli più accessibili a parole di pace. Composti gli animi si compongono facilmente gli interessi; e conosciute le cause di dissenso, non è difficile scoprire il vero punto di questione, calcolare la distanza che divide le parti, ridurre a segno le smodate pretese, sceverare tutto quello che sa di cavillo e di puntiglio o falso amor proprio.

Se la sua proposta di accomodamento non viene accettata, e fatte invano le solite rimostranze sui guai, sulle spese e l’incerto esito di qualsivoglia lite [66], il Conciliatore, cui rimanga la speranza di un migliore successo, può con qualche pretesto rinviare le parti ad altro giorno; officiare il mandatario perché faccia comparire la parte in persona; proporre di rimettere a guisa di arbitrato la definizione dell’affare a un giureconsulto, a un notaio, a un ragioniere [67]  secondo i casi, invitare le parti ad un formale compromesso in uno o più arbitri, del quale potrebbe egli stesso erigere l’atto costitutivo in processo verbale di conciliazione” [68].

Riuscisse o meno la conciliazione le conseguenze erano stabilite dall’art. 6 del Codice di procedura civile. Se riusciva erano dovuti i diritti di cancelleria per il processo verbale  (dai 50 centesimi a una lira e 50 per conciliazioni oltre le 100 lire), per la scritturazione oltre le 4 facciate (38 centesimi), per la copia del verbale (dai 20 ai 23 cent.) e la notifica (30 cent.). Lo facciamo notare non per eccesso di pignoleria, ma solo per indicare che una conciliazione costava poco meno di un’intera causa, (che eccettuata la fase di esecuzione si assestava circa sulle lire 1 e 80 cent.) e quindi ciò non facilitava gli accordi.

Peraltro anche la sola nomina degli arbitri era costosa (1 lira e 13 cent.) e se interveniva nell’ambito di una conciliazione le parti si ritrovavano a dover pagare somme davvero importanti. Lo facciamo notare per rispondere all’obiezione tanto gettonata oggi per cui la mediazione dovrebbe essere gratuita: la storia ricorda davvero pochi casi.

Il verbale di conciliazione doveva contenere la convenzione [69]. Se mancava la sottoscrizione del conciliatore o del cancelliere il verbale di conciliazione sarebbe stato una semplice scrittura privata e non un atto autentico [70]. Se difettava la firma delle parti l’atto sarebbe stato inesistente, a meno che non si fosse fatta menzione del motivo [71].

Il consenso verbale non aveva alcun valore [72]: se steso l’accordo le parti rifiutavano di sottoscrivere il tentativo falliva [73]; lo stesso accadeva, se i presenza di più parti, alcune firmavano ed altre no, a meno che trattandosi di obbligazioni divisibili le parti dichiarassero di volerne conservare l’efficacia nei loro rapporti. Esisteva peraltro ed era frequente anche il caso della conciliazione orale di cui si dava menzione solo nel registro.

Anche nel caso di conciliazione non riuscita se ne faceva menzione solo in registro [74]: non vi era dunque alcun verbale che attestasse il fallimento [75], perché si voleva rispettare il segreto sulle motivazioni delle parti [76] e rassicurarle di non subire pregiudizio in un eventuale futuro giudizio: diversamente non sarebbero state leali e franche davanti al conciliatore [77]. Si riteneva inoltre che il conciliatore e il cancelliere non potessero essere chiamati a deporre, nemmeno nel processo penale, per incompatibilità inerente alla funzione [78].

Il processo verbale regolarmente formato aveva funzione di atto pubblico [79], autentico [80], giudiziale [81]: si differenziava dall’atto notarile o dalla sentenza, per il solo fatto che era esecutivo entro la competenza del conciliatore. Ancora oggi l’art. 322 c. 2 C.p.c. recita che il processo verbale costituisce titolo esecutivo solo entro la competenza del giudice di pace. Si ritiene però che tale esecutività sia limitata; siccome l’art. 612 c.p.c. prevede che l’esecuzione degli obblighi di fare e di non fare possa essere disposta con sentenza di condanna, essa non può essere fondata dal processo verbale del giudice di pace anche all’interno della sua competenza. Ci limitiamo però a sottolineare che la Corte Costituzionale con sentenza n. 336 del 12 luglio 2002 ha ritenuto debole il riferimento alla “sentenza” (potendo l’esecuzione avvenire anche con ordinanza) ed ha precisato che in caso di verbale di conciliazione ai sensi dell’art. 185 C.p.c. (titolo esecutivo ex art. 474 n. 1), gli unici limiti all’esecuzione ex art. 612 C.p.c. possono essere di carattere sopravvenuto. E quindi se il giudice non appone limitazioni qualsivoglia esecuzione è possibile.

L’art. 7 de Codice di procedura civile del 1865 stabiliva poi che: “Quando l’oggetto della conciliazione non ecceda il valore di lire 30, il processo verbale di conciliazione è esecutivo contro le parti intervenute, al quale effetto il conciliatore può autorizzare la spedizione della copia nella forma stabilita per le sentenze. Se l’oggetto della conciliazione ecceda il valore di lire 30, o il valore sia indeterminato, l’atto di conciliazione ha soltanto la forza di scrittura privata riconosciuta in giudizio”. Il limite delle 30 lire fu poi elevato, come già sappiamo, a lire 100 con l’art. 12 della legge 16 giugno 1892.

Per “oggetto della conciliazione” si intendeva il prodotto finale della conciliazione, inferiore o superiore ad una data somma: quindi il valore della conciliazione non si determinava dalla somma domandata, ma da quella concordata [82]. In oggi l’art. 16 (c. 7 e 8) del decreto interministeriale 18 ottobre 2010 n. 180[83] prevede che “il valore della lite è indicato nella domanda di mediazione a norma del codice di procedura civile. Qualora il  valore risulti  indeterminato,  indeterminabile, o vi  sia  una  notevole divergenza tra le parti sulla stima, l'organismo decide il valore  di riferimento, sino al limite di euro 250.000, e lo comunica alle parti. In ogni caso, se all'esito del procedimento di mediazione il valore risulta diverso, l'importo dell'indennità è  dovuto  secondo il corrispondente scaglione di riferimento.”.

L’inciso per cui si stabiliva che l’atto di conciliazione aveva “soltanto la forza di scrittura privata riconosciuta in giudizio”, significava che pur mantenendo la pubblica fede dell’atto autentico, il verbale al di sopra della competenza del conciliatore, non poteva possedere la forza dell’atto notarile o della sentenza, cioè il privilegio dell’esecuzione forzata. In oggi l’art. 474 n. 2 C.p.c. prevede che siano titoli esecutive le scritture private autenticate limitatamente alle somme di denaro in esse contenute.

Siccome la scrittura riconosciuta in giudizio ha il medesimo valore probatorio, si ritiene che possa fondare l’espropriazione limitatamente alle somme di denaro, ma non gli altri tipi di esecuzione, perché il processo verbale oltre il limite di competenza non è né una sentenza, né un atto pubblico.

Anche i verbali esecutivi comunque non potevano porsi in esecuzione [84] sino a che il cancelliere non ne avesse spedita una copia esecutiva che andava notificata al debitore unitamente al precetto. Dai verbali di conciliazione non poteva nascere ipoteca giudiziale, perché essa poteva essere prodotta dalle sole sentenze ed il verbale invece era un contratto. Si poteva però costituire ipoteca convenzionale perché per essa bastava l’atto pubblico; lo stesso valeva per l’ipoteca legale [85]. In forza di verbale di conciliazione era possibile anche la trascrizione di quei contratti od atti che dovessero rendersi pubblici per tale mezzo [86].

Nel caso in cui il verbale di conciliazione contenesse contratti relativi ad immobile il cancelliere, entro 60 giorni, doveva presentarlo al catasto ed all’agente delle tasse. Interessante è che spesso si facevano conciliazioni anche per la correzione di errori catastali: una parte chiedeva all’altra il rimborso delle imposte pagate per errore ed il verbale con cui l’altra parte si impegnava a pagare il dovuto veniva appunto inviato a catasto [87].

Rileviamo infine a proposito dell’art. 7 che i verbali di conciliazione erano esenti sino a 30 lire [88] dalla tassa di registro ed erano assoggettati all'imposta di bollo [89]; del pari tutti gli atti tra le parti scontavano le predette imposte e quindi, sommati anche i costi processuali, la conciliazione, lo rimarchiamo, non era esattamente a buon mercato. Il processo verbale di conciliazione poteva essere impugnato con i rimedi previsti dalla legge per impugnare i contratti ed in particolare, le transazioni. Quindi venivano in capo le azioni od eccezioni di nullità, per incompetenza, incapacità del conciliatore, per difetto di forma o per vizi intrinseci al verbale stesso. Sino a 100 lire decideva il Conciliatore, sino a 1500 lire il pretore e sulla somma superiore il tribunale.

Il verbale era nullo se:
1) richiesto al conciliatore non competente per territorio; 2) richiesto per la constatazione di un accordo già predisposto tra le parti e non per la composizione di una controversia; 3) relativo ad atti espressamente demandati dalla legge ad altro pubblico ufficiale; 4) emesso da conciliatore che non avesse giurato o fosse cessato dalla carica o sospeso; 5) non rispettava le forme previste dall’art. 6 C.p.c. e quelle sottese.

In tali casi però il verbale era nullo come atto pubblico, ma poteva valere come scrittura privata se firmato da tutte le parti. La nullità era invece piena se mancava uno dei requisiti essenziali per la validità dei contratti in genere: a) incapacità delle parti: che poteva essere assoluta o relativa e quindi opponibile solo dalla parte incapace; b) consenso invalido dei contraenti: se fosse stato dato per errore, estorto con violenza, o carpito con dolo [90]; c) assenza di un oggetto determinato; d) assenza di causa oppure se la conciliazione fosse stata fondata su causa falsa od illecita.

Già all’epoca si riteneva che anche nei casi in cui la conciliazione non s’identificasse con una transazione, si vedevano estese comunque alcune regole di quest’ultima. Così si riteneva che potesse prevedersi nel verbale di conciliazione una pena contro chi non adempiva [91]: in altre parole mentre negli altri contratti l’inadempiente non poteva essere obbligato fuorché in modo alternativo, o all’esecuzione dell’obbligazione principale, od a scontare la pena stipulata [92], nella transazione – e quindi nella conciliazione - la pena sostituiva soltanto il compenso per i danni cagionati dal ritardo e rimaneva fermo l’obbligo di adempiere la transazione [93].

Potevano inoltre impugnarsi di nullità le conciliazioni, così come le transazioni nel caso: 1) di errore sulla persona 94] o sull’oggetto della controversia [95]; 2) in cui la conciliazione fosse fondata su documenti che fossero stati successivamente riconosciuti falsi; 3) in cui la conciliazione fosse fatta su un titolo nullo, salvo che le parti avessero espressamente trattato della nullità; 4) in cui la conciliazione avesse avuto luogo sopra una lite che fosse finita con sentenza passata in giudicato, della quale le parti o una di esse non avesse avuto notizia.

La scoperta di documenti nuovi successivi alla conciliazione giocava nel senso che poteva essere impugnata in caso di occultamento, sempre che la conciliazione fosse relativa a tutti gli affari intercorsi tra le parti. Nel caso di conciliazione su un unico oggetto invece doveva risultare provato dai documenti che una delle parti non aveva alcun diritto sullo stesso oggetto.

In conclusione si riportano i dati sulla conciliazione per il 1880 [96] della relazione Zanardelli del 1882. Gli 8332 conciliatori del Regno si occuparono di 1.075.246 controversie. Gli affari da loro trattati aumentarono dal 1875, ma nel decennio anteriore vi erano in proporzione più conciliazioni. Le loro sentenze costituirono il 70,84 per cento del totale delle sentenze emanate da organi giudiziari [97]. Su 1.075.246  di controversie la conciliazione preventiva si riferì a 224.461 controversie e quindi a circa 1/5 dell’intero contenzioso. Di queste 224.461 controversie in sede preventiva vennero conciliate 122.034 e dunque 54 controversie su 100 [98].

In sede contenziosa per 850.785 controversie vennero conciliate o transatte 223.835 cause. Ossia 26 su 100 controversie cessarono per intervenuta conciliazione. Il totale delle conciliazioni ammontò dunque a 345.869, ossia a 32 conciliazioni su 100 e dunque ad 1/3 degli affari di cui ebbero ad occuparsi i conciliatori. Si deve aggiungere che nelle province meridionali pochissimi erano gli affari che si presentavano al conciliatore in sede non contenziosa, mentre nelle regioni del Nord si affrontavano in sede preventiva un maggiore numero di affari. Tuttavia a Napoli le conciliazioni erano 82 su 100, in Sicilia 91 su 100, mentre al Settentrione si attestavano al 50 per cento.

Il contenzioso al Sud era invece assai maggiore di quello del Nord (per 100 abitanti al Nord c’erano 2,08 cause, mentre a Napoli 5,26 e in Sicilia 4,59), ma in sede contenziosa al Sud si conciliavano solo il 6 per 100 delle cause per il Napoletano e l’11 per cento in Sicilia, contro il 53 per cento del Settentrione.

3. La conciliazione in tema di separazione dei coniugi

La conciliazione ufficiale investiva anche altri funzionari dell’ordine giudiziario o amministrativo che avevano dunque il potere o il dovere di tentare la conciliazione, volontaria o giudiziale. In primo luogo aveva questo incombente il pretore, incluso tra i pubblici funzionari che svolgevano compiti di conciliazione ufficiale: tuttavia essa non veniva praticata dalle parti perché si riteneva che il verbale pretorile non avesse efficacia esecutiva; di qui si preferiva di gran lunga una sentenza di condanna [99]. Tentativo di una certa rilevanza era  invece quello espletato dal presidente del tribunale in materia di separazione.

La separazione che dai tempi di Teodosio si chiamava ripudio, aveva in passato cause molteplici ed incerte. Così il legislatore dell’Ottocento stabilì che le cause dovessero essere determinate dalla legge [100]. La separazione poteva essere domandata per causa di adulterio o di volontario abbandono, di eccessi, sevizie, minacce e ingiurie gravi [101]. Non era ammessa però per l'adulterio del marito, se non quando mantenesse concubina in casa o notoriamente in altro luogo, oppure concorressero circostanze tali che il fatto costituiva una ingiuria grave alla moglie [102].

Altra causa di separazione era quella di condanna alla pena criminale successiva al matrimonio [103]. La moglie poteva chiedere inoltre la separazione quando il marito non fissava la sua residenza senza un giusto motivo o la fissasse non secondo la sua condizione economica [104].

Il divorzio non fu ammesso invece nel Codice del 1865 “perché  secondo il concetto del medesimo il matrimonio è un atto civile che interessa profondamente lo Stato; e perché è necessario che il matrimonio sia contratto colla severità che deriva dal concetto dell'indissolubilità; e perché infine esso ripugna assolutamente ai nostri costumi. Il Codice civile esclude dunque affatto l'idea del divorzio, ossia dello scioglimento del vincolo matrimoniale, non per motivi religiosi, ma per motivi dettati dall'interesse della società civile, ed ammette soltanto la separazione personale dei coniugi per cause determinate. La sola morte, ultima linea delle cose umane, romperà il nodo che strinse gli sposi. Il mutuo loro consenso non varrà neppure a farlo cessare. Non mancarono neppure nella circostanza della discussione di questo Codice i difensori della legge del divorzio, ripetendo i soliti argomenti contro l'indissolubilità del vincolo matrimoniale. Ma a tutti risponde vittoriosamente il dotto Relatore...” [105]. Il divorzio fu invece ammesso dal Codice civile francese, ma anche in Francia venne abrogato nel 1816.

Nell'ordinamento italiano ottocentesco il tentativo preliminare di conciliazione giudiziale era dunque obbligatorio [106] per le cause di separazione dei coniugi [107]: di esso [108] si occupava il presidente del tribunale di domicilio del marito [109], che fissava l’udienza [110] su presentazione del cancelliere che doveva avvenire il giorno successivo al deposito [111]. Le parti dovevano comparire personalmente, e non potevano farsi assistere da procuratori, né da consulenti [112]. E ciò per evitare che aumentasse lo stato di irritazione dei coniugi [113]. Il tentativo in questa materia era questione di ordine pubblico.

E di conseguenza se non compariva la parte istante la domanda di separazione non aveva effetto, ma il presidente la condannava a pagare le spese dell’altra parte comparsa [114]. Se era la resistente a non comparire, il presidente poteva condannarla a pena pecuniaria non maggiore di lire 100 ed ordinare altresì che fosse nuovamente citata. In tal ultimo caso dunque la sanzione era rimessa alla discrezionalità del giudice e così l’eventualità di una rinnovazione della citazione [115].

Tale previsione è per noi decisamente interessante giacché un meccanismo analogo, anche se sempre facoltativo per il giudice ed in relazione ad entrambi le parti, verrà introdotto nell’art. 40 c. 5 del decreto legislativo 17 gennaio 2003 n. 5 nell’ambito della conciliazione societaria [116]. Simile ratio aveva l’art. 8 c. 5 del decreto legislativo 4 marzo 2010 n. 28 censurato forse affrettatamente dalla Consulta. C’è però da aggiungere che nel processo di separazione ottocentesco la disciplina non era poi così arcigna poiché la parte non comparsa poteva giustificare un impedimento legittimo e allora il giudice revocava la condanna e stabiliva un altro giorno per la comparizione delle parti.

All’udienza il presidente doveva “avanti tutto” sentire separatamente l'uno e l'altro coniuge, e fare in seguito ad ambedue “le rimostranze” [117] che credesse atte a riconciliarli. Quindi si prevedeva la possibilità di sedute separate come nella conciliazione davanti al conciliatore, e di una seduta “congiunta” nella quale si procurava la vera e propria riconciliazione con un potere manageriale, oggi si direbbe, del giudice assai pregnante[118]: è questo un altro schema che si ritroverà nella moderna mediazione.

Addirittura si riteneva che il presidente potesse sentire le parti anche a più riprese e si potesse recare a casa di uno dei coniugi se indisposto[119]: la riconciliazione dei coniugi era primario interesse della famiglia, ma in primo luogo della  comunità e quindi la procedura di un tentativo preso con grande serietà,  doveva dimostrare la massima flessibilità [120]. Proprio nell’intento di rendere sempre più efficace lo strumento sarebbe auspicabile che la “conciliazione navetta” che anche noi conosciamo, fosse estesa anche ad altri tentativi di conciliazione presenti nel nostro ordinamento [121].

La disciplina è simile dunque anche nel nostro ordinamento dato che “All'udienza di comparizione il presidente deve sentire i coniugi prima separatamente e poi congiuntamente, tentandone la conciliazione” [122]; ma in quella ottocentesca forse lo schema era in qualche modo “valutativo” viste le “rimostranze” [123] cui poteva seguire la “riconciliazione”, mentre attualmente si legge che il giudice “sente” le parti ed è quindi maggiormente calato in una conciliazione facilitativa [124].

Se la riconciliazione riusciva, il presidente ne faceva risultare da processo verbale [125]. Essa comportava l’immediata ed assoluta estinzione del diritto di chiedere la separazione e l’abbandono della causa proposta [126]. Se la riconciliazione non riusciva, o la parte citata non compariva, il presidente rimetteva con decreto le parti avanti il tribunale, e dava i provvedimenti temporanei che ravvisava urgenti nell'interesse dei coniugi e della prole [127], salvo comminare le multe predette per il caso di non comparizione. Nel caso di riuscita del tentativo non si era però sicuri che il verbale avesse efficacia esecutiva. Analoghe disposizioni erano previste per il caso di separazione volontaria (la nostra consensuale) [128].

Il presidente del tribunale doveva innanzi tutto sentire, nel giorno da lui stabilito, sul ricorso delle parti, l'uno e l'altro coniuge separatamente e fare in seguito ad ambedue le rimostranze che credesse atte a riconciliarli. Se la riconciliazione riusciva, si faceva processo verbale, come nel giudizio di separazione non volontaria. Se la conciliazione non riusciva, si faceva nelle stesse forme processo verbale del consenso dato dai coniugi per la separazione.

Il processo verbale doveva inoltre esprimere le condizioni della separazione riguardo ai coniugi e alla prole, le quali però potevano modificarsi a richiesta delle parti e secondo le circostanze [129]. La separazione volontaria doveva essere omologata [130] in camera di consiglio su relazione del presidente; stessa cosa avviene oggi alla nostra consensuale [131]: ciò per poter proteggere gli interessi dei terzi, ma anche per evitare che vengano messi in discussione i principi fondamentali dell’ordinamento [132].

4. Altri tipi di conciliazione ufficiale

Sempre il presidente del tribunale doveva procurare di conciliare le parti prima di rimetterle all’autorità giudiziaria nelle cause di opposizione al provvedimento che ordina il pagamento delle specifiche di avvocati, notai, procuratori, uscieri ecc. [133]. Nondimeno effettuava conciliazione ufficiale il notaio quando veniva delegato dal giudice alle operazioni delle divisioni giudiziali.

Sempre di conciliazione ufficiale trattasi in relazione all'attività di composizione del Consiglio notarile e al Consiglio dell'ordine degli avvocati (o del Consiglio di disciplina dei procuratori) in relazione alle controversie tra membri e tra membri e terzi [134]. Una forma particolare conciliazione ufficiale veniva tenuta dalla Commissione del gratuito patrocinio: la richiesta era comunicata alla parte avversa che poteva presenziare per contestare la povertà dell'avversario ovvero per dare spiegazioni sul merito della causa o ancora per conciliare. Detta conciliazione però era simile alla nostra di diritto comune: si dava atto solo della conciliazione e per la convenzione era necessario andare o da un notaio o dal Conciliatore[135].

Anche l'autorità portuale doveva provvedere alla conciliazione [136]: sotto alle 200 lire essa poteva decidere, anche in assenza della parte debitamente chiamata, oppure comporre proprio come il conciliatore ed il verbale aveva in tal caso effetti esecutivi. Per le questioni di valore superiore alle 200 lire  il tentativo si conciliazione era obbligatorio pena l'improcedibilità dell'azione [137].

Se esso non riusciva i Capitani ed Ufficiali del porto stendevano verbale da trasmettere al tribunale “colla perizia cui avessero stimato di procedere per l’accertamento dei fatti e col loro parere”. Questo tipo di conciliazione ha tratti che verranno ripresi  dall'attuale 696 bis C.p.c. [138] ed anche dal procedimento di cui al decreto 4 marzo 2010, n. 28, sino a che almeno non è stato censurato dalla Consulta [139].

Ne ritroviamo una analoga anche nell’attuale Codice della navigazione [140] ove si stabilisce che il comandante del porto debba svolgere un amichevole componimento [141] per sinistri marittimi [142] anche se il valore sia sopra le cento mila lire. Sempre davanti al comandante del porto si svolgev [143] poi un tentativo di conciliazione giudiziale peculiare per il caso di esito infruttuoso [144]. I nostri consoli svolgevano poi all'estero conciliazione ufficiale tra nazionali e fra questi ed i sudditi esteri ovvero anche tra nazioni [145]. Ancora oggi il tentativo di amichevole composizione [146] e l’arbitrato sono incombenze del corpo consolare tra cittadini e tra cittadini e non cittadini.

Vi erano poi alcuni funzionari amministrativi che si occupavano a vario titolo di conciliazione ufficiale. Gli ufficiali di pubblica sicurezza (compresi i sindaci) componevano i privati dissidi [147] a richiesta delle parti e stendevano verbali[148] con convenzioni che potevano essere prodotte in giudizio e facevano pubblica fede [149]. I sindaci con l'assistenza della giunta comunale componevano amichevolmente i dissidi in materia di espropriazione e le contravvenzioni al codice della strada ed ai regolamenti locali: nel caso di contravvenzioni i contravventori pagavano un'oblazione che escludeva il procedimento [150].

Gli ufficiali che ricevevano le querele dovevano avvertire [151] poi la parte offesa del diritto che le competeva di desistere [152], diritto che poteva peraltro essere azionato in ogni stato e grado del processo di fronte al magistrato [153]: a seguito di conciliazione vi era una "dichiarazione di non essere luogo a procedimento" [154].

Ancora la deputazione di borsa doveva occuparsi dell'amichevole componimento delle questioni insorte in conseguenza degli affari conclusi in borsa: si noti che le deputazioni incaricate di sorvegliare la borsa e provvedere all'esecuzione dei regolamenti, erano nominate annualmente dalla Camera di commercio. Abbiamo qui dunque le antenate di quelle commissioni arbitrali e conciliative a cui la legge di riforma delle camere di commercio del 1993 ha affidato la risoluzione delle controversie tra imprese e tra imprese e consumatori ed utenti.

5. Il verbale di conciliazione nell’Italia Unita

In ultimo riteniamo qui possa essere cosa gradita riportare la bozza del verbale di riuscita conciliazione che veniva utilizzata dai Conciliatori del Regno [155]. Per molti aspetti, infatti, potrebbe essere riutilizzato in qualche punto, con gli opportuni aggiustamenti, anche dal mediatore di cui al decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28.
(Per il modello di verbale e per le note, vedi post nel blog)

martedì 25 dicembre 2012

Buon Natale da FormaMediAzione!


Come personale augurio per questo Natale, vorrei condividere con i lettori del mio blog la foto di auguri dell'AIF (Associazione Italiana Formatori) e riportare un pensiero di Nelson Mandela a me molto caro.
"Un vincitore è solo un sognatore che non si è mai arreso"

Tanti auguri! 'Namo Ste' :)
ps Inoltre, per festeggiare degnamente, accompagno questo pensiero ad un evergreen, la celebre  Do they know It's Christmas (una delle mie dieci canzoni di sempre) di Midge Ure e Bob Geldof...

lunedì 24 dicembre 2012

Un po' di storia... Il conciliatore nell’Italia unita (seconda parte)


Segue dalla prima parte (vedi post).
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Rilevante è ancora che il conciliatore potesse essere delegato dal pretore [1] a convocare e presiedere i consigli di famiglia o di tutela che furono introdotti nella legislazione francese per le cause tra congiunti sulla scorta del diritto romano [2]. Tra le competenze minori ricordiamo: ricevere testamenti nel comune [3] infetto da malattia contagiosa [4]; autorizzare pignoramenti immediati subito dopo la notifica del titolo e del precetto [5]; vistare e sottoscrivere i bandi di vendita al pubblico di beni mobili [6]; apporre i sigilli nei comuni ove non ci fosse il pretore [7]; far parte della commissione che forma la lista dei giurati [8]; ricevere per antico uso in un registro le polizze di obbligazione dei monti frumentari [9]; giudicare le contestazioni al ruolo delle prestazioni d’opera per le strade obbligatorie [10]; essere delegato dal pretore a dispensare le pubblicazioni di matrimonio e a rilasciare atto notorio in luogo del certificato di nascita [11].

Con legge 16 giugno 1892 n. 261 si sentì l’esigenza di modificare, come già accennato, la competenza del conciliatore e di regolare più compiutamente il funzionamento dell’ufficio di conciliazione a cui viene per la prima volta riconosciuta una denominazione organica [12]. Venne mutato il sistema di nomina, revoca e sospensione del conciliatore che faceva ora capo al primo presidente di Corte d’Appello su delegazione del Re [13]; il conciliatore veniva scelto da una lista [14] di dieci nomi che il consiglio comunale inviava alla Corte e che andavano individuati, nonostante la scelta fosse assai criticata, con particolare riferimento ad alcune categorie di soggetti: notai, farmacisti, avvocati e procuratori, figure queste ultime particolarmente avversate dal legislatore [15], laureati di qualunque disciplina, ex soldati, maestri elementari, coloro che avessero ottenuto la licenza di maturità, ex deputati e senatori, ex dipendenti pubblici, ex sindaci, consiglieri provinciali, e i contribuenti che versavano all’erario almeno 100 lire di imposte all’anno [16].
Si aveva dunque normalmente di mira la cultura e professionalità [17] del pacificatore e l’esperienza di vita; il tipo di professione poteva essere il più vario [18]; era stato considerato anche il censo perché si presumeva che il possidente fosse più interessato di altri a mantenere la pace e la concordia nel comune (stesso principio dunque che reggeva l’elezione del Conciliatore delle Due Sicilie).
Per rimediare alle obiezioni circa “l’apertura” alle professioni forensi, si stabilì che gli stessi esercenti la professione legale e rivestiti della qualità del conciliatore o vice-conciliatore, non potessero prestare assistenza alle parti o rappresentarli davanti all’ufficio di conciliazione del quale fossero titolari [19]. Questa norma che peraltro è transitata per un certo tempo anche nell’attuale ordinamento con riferimento a giudice di pace [20], è una nitida esplicazione del principio d’indipendenza che il mediatore odierno ricorda alle parti nel momento introduttivo della procedura e che nel regolamento della conciliazione societaria ha dato evidentemente luogo all’esclusione del giudice conciliatore dal novero di coloro che possono prestarla.

La legge di riforma stabilì [21] anche che in ogni controversia il conciliatore dovesse innanzitutto procurare la conciliazione delle parti: è quella che anche noi chiamiamo conciliazione giudiziale e che è attualmente prevista dall’art. 320 C.p.c. [22]; sino ad allora il Codice di procedura civile [23] prevedeva che si estendesse al conciliatore la norma sulla conciliazione pretorile [24]. Peraltro la norma pretorile è interessante perché ci presenta uno schema simile a quello che verrà utilizzato successivamente anche per la sessione congiunta iniziale della conciliazione ad hoc [25]: “Il pretore, sugli atti avanti indicati, sentite le parti in persona nelle loro ragioni ed eccezioni ulteriori, deve procurare di conciliarle”. Ancora l’art. 12 della legge di riforma considerava l’efficacia del verbale della conciliazione volontaria preventiva.

L’art 7 del C.p.c. del 1865 prevedeva l’esecutività [26]  del verbale entro le 30 lire; tale valore venne portato nel 1892 a 100 lire; sopra questa quota il verbale mantenne la forza di scrittura privata riconosciuta in giudizio. Lo schema peraltro verrà adottato anche dall’art. 322 [27] C.p.c., seppure naturalmente siano diversi gli attuali limiti di competenza per materia e per valore [28]. Quel che è importante ricordare è che sia nel nostro come nell’antico ordinamento la conciliazione volontaria non contenziosa del conciliatore (e oggi del giudice di pace) non aveva limite alcuno di materia e di valore.
Ma la norma più rilevante ai fini del procedimento di conciliazione, a sommesso parere dello scrivente, era contenuta nel regolamento di esecuzione della legge [29] e stabiliva all’art. 12 quello che poi sarà lo schema di fondo della mediazione odierna: ”Per tentare l’esperimento della conciliazione il conciliatore avrà diritto di chiamare le parti separatamente o congiuntamente in privata udienza. Non riuscendo lo esperimento, il conciliatore potrà rinviare al discussione della causa alla prossima udienza e ripetere anche nella medesima i suoi buoni uffici. Se le parti non si conciliano, procederà senz’altro alla trattazione della causa”. 

Questa norma ha una portata rivoluzionaria anche per i nostri tempi, perché prevede la possibilità d’incontri separati, e quindi in assenza di contraddittorio, in ambito di conciliazione giudiziale; il legislatore del tempo aveva cioè compreso che per la conciliazione, sia essa preventiva volontaria o giudiziale, vigono regole differenti dal giudizio. In continuazione con le pregresse esperienze si stabilì che tale conciliazione giudiziale poteva essere tenuta anche in presenza dei soli difensori che avessero specifico mandato.
L’art. 13 del predetto regolamento stabiliva infine che “il mandato per farsi rappresentare innanzi al conciliatore dovrà contenere la facoltà di transigere e conciliare a nome della parte, salvo sempre al conciliatore la facoltà di chiamare le parti personalmente di fronte a sé per l’esperimento della conciliazione [30] o di farle sentire sopra fatti specificati dal conciliatore”, dal collega del luogo di residenza. E se le parti non si presentavano personalmente il conciliatore procedeva al giudizio.

La facoltà del conciliatore di ordinare la comparizione delle parti si prevede espressamente sino al 1995 nel caso di conciliazione fuori dalla sede di pretura [31], ovvero quando le parti, caso estremamente raro, si costituissero in cancelleria: in questo ultimo caso il giudice poteva convocare le parti e prima dell’udienza tentare di conciliarle. Davanti al conciliatore e poi al giudice di pace la comparizione personale [32] sarà in definitiva sempre e solo facoltativa e per il giudice e per le parti. E anche per quanto riguarda il processo di cognizione [33]  la comparizione personale sarà prevista sempre come un’eventualità. Sino al 1995 verrà disposta dal giudice “quando occorre”; a partire dagli anni ’90, quando disposta,  lascerà comunque libere le parti di farsi rappresentare con l’unico limite della conoscenza dei fatti di causa in capo al procuratore.

[1] Cui la legge attribuiva il compito di sorvegliare le tutele. V. Relazione al re del 26 dicembre 1892 sul regolamento per l’esecuzione della l. 16 giugno 1892 n. 261.
[2] Cfr. art. 14 l. 16 giugno 1892 n. 261. Venivano deliberati gli atti per cui era poi necessaria la omologazione del tribunale: autorizzazione di atti di alienazione, pegno ipoteca, mutui, transazioni, compromessi, divisioni ereditarie, dispense del tutore, pro-tutore o curatore dal loro ufficio ecc.
[3] Di domicilio del conciliatore.
[4] Art. 789 C.c. - r.d. 25 giugno 1865 n. 2358. Non importava che il testatore fosse o meno infetto, ma che si trovasse in quel comune. Peraltro trascorsi sei mesi il testamento così redatto era nullo.
[5] Art. 578 C.p.c. – r.d. 25 giugno 1865.
[6] Art. 629 C.p.c. – r.d. 25 giugno 1865.
[7] Art. 21 C.c. - r.d. 25 giugno 1865 n. 2358.
[8] L. 8 giugno 1874.
[9] In pratica si concedevano ai contadini le semenze a credito ed essi sottoscrivevano apposita polizza di debito confezionata dal conciliatore in apposito registro.
[10] L. 30 giugno 1868; anche il giudice di pace inglese aveva attribuzione simile. Ogni capo famiglia doveva prestare obbligatoriamente alcune giornate di lavoro per costruire le strade; in merito a tali giornate si compilava un ruolo ogni due anni che poteva essere appunto contestato.
Tale attribuzione del conciliatore verrà ribadita dal r.d. 13 dicembre 1903, n. 551 con riferimento alle strade comunali di accesso alle stazioni ferrovie.
[11] Sempre ad uso di matrimonio.
[12] Art. 1 del regolamento 26 dicembre 1892, n.728.
[13] Art. 8 del regolamento 26 dicembre 1892, n.728.
[14] Per le formazione v. articoli 2-6 del Regolamento 26 dicembre 1892, n. 728.
[15] Basta leggere la Tornata senatoria del 6 aprile 1892, p. 2927: ai senatori sembravano incompatibili con la figura del conciliatore, “sia per le loro abitudini naturalmente avverse alla conciliazione, sia per quel certo sospetto che nasce dal trovarsi quei professionisti eventualmente conciliatori o giudici davanti ai loro clienti dell’oggi e del domani”. Peraltro gli avvocati, procuratori, notai e farmacisti vennero nominati esplicitamente dalla legge perché, specie nel Sud, molti di loro non possedevano la laurea, né la licenza od altro titolo equivalente; solo nel 1874 quelli esercenti da almeno dieci anni vennero pareggiati ai laureati (art. 60 l. 8 giugno 1874). L. SCAMUZZI, Manuale teorico-pratico dei Giudici Conciliatori, op. cit., p. 77 e ss.
[16]  V. art. 3 l. 16 giugno 1892 n. 261.
[17] Tale modo di vedere giungerà sino alla metà del secolo successivo. Ne è espressione ad esempio l’art. 12 del decreto legislativo luogotenenziale 7 gennaio 1946, n. 1 che vede il conciliatore come “giudice” della prova di alfabetizzazione che dovevano sostenere coloro che volessero candidarsi a consiglieri comunali.
[18] L. SCAMUZZI, Manuale teorico-pratico dei Giudici Conciliatori, op. cit., p. 78 e ss.
[19] Art. 7 l. 16 giugno 1892 n. 261. Il regime delle incompatibilità ha una lunga storia. Vedasi ad esempio la legislazione savoiarda di Vittorio Amedeo del 1729 che peraltro in parte (art. 6) riprendeva quella del 1430 (Statuta Sabaudiae) di Amedeo VIII. Art. 6 libro II Titolo I Leggi e Costituzioni di Sua Maestà  del 1729. “Non sarà lecito a qualunque dei nostri Ministri , ed Uffiziali de’ Nostri Magistrati d’avvocare, e patrocinare in qualunque Causa, che s’agiti de’ Nostri Tribunali, quantunque avanti d’essere ammessi al Nostro Servizio avessero per alcuno delle Parti esercitato il loro patrocinio, sotto pena della perdita dello stipendio per un anno”. Art. 7 libro II Titolo I Leggi e Costituzioni di Sua Maestà  del 1729 “Non solo non potranno avvocare per qualsivoglia Persona, ma nemmeno essere Giudici. Ed Assessori in verun altro Tribunale fuori dai de’ Nostri, alla pena della privazione degli Uffizi da Noi a Loro conceduti”.
[20] Così successivamente l’art. 27 del Regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (in Gazz. Uff., 4 febbraio, n. 28). - Ordinamento giudiziario e successivamente l’art. 8 bis della l. 21 novembre 1991 n. 374, peraltro inserito nel 1994 ed abrogato nel 1999.
[21] Art. 9 l. 16 giugno 1892 n. 261. Per le cause sino a lire 50 se ne faceva menzione nel verbale di udienza; per quelle sopra le lire 50 in sentenza. Principio storico questo risalente alla legislazione sui Difensori di città.
[22]  “Nella prima udienza il giudice di pace interroga liberamente le parti e tenta la conciliazione. Se la conciliazione riesce se ne redige processo verbale a norma dell'articolo 185, ultimo comma. Se la conciliazione non riesce, il giudice di pace invita le parti a precisare definitivamente i fatti che ciascuna pone a fondamento delle domande, difese ed eccezioni, a produrre i documenti e a richiedere i mezzi di prova da assumere”.
[23] Art. 464 C.p.c. – r.d. 25 giugno 1865.
[24] Art. 417 C.p.c. – r.d. 25 giugno 1865.
[25] Ed oggi pure per la mediazione di cui al decreto 4 marzo 2010 n. 28.
[26] L’esecuzione prescelta era quella mobiliare cui soprintendeva lo stesso conciliatore (art. 13).
[27] “L'istanza per la conciliazione in sede non contenziosa è proposta anche verbalmente al giudice di pace competente per territorio secondo le disposizioni della sezione III, capo I, titolo I, del libro primo. Il processo verbale di conciliazione in sede non contenziosa costituisce titolo esecutivo a norma dell'articolo 185, ultimo comma, se la controversia rientra nella competenza del giudice di pace. Negli altri casi il processo verbale ha valore di scrittura privata riconosciuta in giudizio”.
[28] Quella territoriale è, infatti, irrilevante.
[29] Regolamento 26 dicembre 1892, n. 728.
[30] Peraltro abbiamo visto che le Pandette attribuivano pure all’arbitro la facoltà di costringere le parti a partecipare alla lettura della sentenza.
[31] Perché qui la rappresentanza poteva darsi anche a persona non legale che non poteva autenticare il mandato.
[32] Art. 320 C.p.c.
[33] Cfr. a seconda dei momenti l’art. 183 c. 1 (dal 1995 al 2006)  e l’art. 185 C.p.c. (dal 2006 ad oggi).