sabato 22 ottobre 2011

Negoziare con il diavolo, ovvero articolo di Mnookin sulla liberazione di Gilad Shalit

Una delle mie grandi passioni è quella di unire l’interesse per lo studio della negoziazione e della mediazione con le applicazioni nella politica interna ed internazionale. Per questo motivo non posso farmi sfuggire l’occasione di commentare uno splendido articolo di Bob Mnookin (uno dei massimi esponenti del Program on Negotiation dell’Università di Harvard) sul Wall Street Journal relativo alla liberazione di Gilad Shalit, avvenuto la scorsa settimana, in seguito ad un accordo tra il governo israeliano e Hamas, facilitato dal “nuovo” governo egiziano. 

Secondo alcuni l’accordo raggiunto qualche giorno fa può definirsi irrazionale. Infatti, in cambio della liberazione del soldato israeliano rapito da Hamas nel 2006 il governo Netanyahu ha rilasciato oltre 1.000 prigionieri palestinesi. Cosa può spiegare questa decisione? Israele si è sempre rifiutato di negoziare con organizzazioni che considera terroristiche, soprattutto con Hamas, che non ha mai nascosto di considerare quale suo obiettivo la distruzione dello stato ebraico. Ora, riguardo l’accordo dell’11 ottobre Israele potrà certamente dire che nessuno nel suo governo si è mai incontrato faccia a faccia con rappresentanti di Hamas, poiché le trattative sono avvenute attraverso un’attività di “shuttle diplomacy” dei rappresentanti del Cairo. Tuttavia questa “foglia di fico” di mera facciata non può nascondere la verità, ossia che un accordo è stato raggiunto. 

Attenzione: Mnookin nel suo articolo non intende dire che il governo Netanyahu non avrebbe dovuto negoziare con Hamas. Infatti, sono tanti i governi che ufficialmente si rifiutano di negoziare con movimenti o gruppi che considerano terroristi ma che poi, quando gli interessi in gioco sono molto alti, mantengono, sia pure in segreto, sempre aperto il canale del dialogo, secondo un approccio tipicamente “pragmatico”. Approccio che, peraltro, lo stesso governo israeliano ha tenuto anche altre volte; ad es. nel 1985 con l’accordo di Jibril (con il Fronte Popolare di Liberazione della Palestina), attraverso il quale Israele ha rilasciato 1.150 prigionieri in cambio della liberazione di tre soldati israeliani catturati durante la prima guerra in Libano, oppure quello del 1988, quando Israele e il suo alleato, l’esercito sud-libanese, acconsentì al rilascio di 65 prigionieri di Hezbollah in cambio dei resti di un soldato israeliano ucciso. Israele ha giustificato questo tipo di accordi sulla base della considerazione che il suo esercito ha bisogno di ogni uomo disponibile e che, in cambio della richiesta ai suoi cittadini di rischiare la propria vita per servire il paese, il governo è pronto a sostenere ogni tipo di impegno per liberare chi è caduto in mani nemiche. 

Tuttavia, in questa situazione, secondo Mnookin, questa motivazione sembra poco sostenibile, soprattutto, se interpretata attraverso la logica di costi e benefici di lungo periodo e ciò per diversi motivi. Prima di tutto perché la liberazione di oltre 1.000 prigionieri palestinesi (di cui alcuni coinvolti in atti terroristici che hanno causato la morte di cittadini israeliani) potrebbe creare problemi anche per il prossimo futuro, come è accaduto anche in occasioni precedenti. Ad es. nel 2004, Israele ha scambiato diverse centinaia di prigionieri palestinesi in cambio della liberazione di un soldato (e dei resti di altri tre) tenuti in ostaggio da Hezbollah. Successivamente, secondo un rapporto del Jerusalem Center for Public Affairs, alcuni dei prigionieri rilasciati hanno ucciso 35 persone. 

Un altro costo ingente è dato dal fatto che questo episodio potrà costituire un precedente perché potrebbe incoraggiare i nemici di Israele a intraprendere o proseguire la via del rapimento, poiché permette di ottenere ottimi risultati. Peraltro, questa considerazione è in linea con le dichiarazioni di alcuni rappresentanti di Hamas che hanno dichiarato di voler proseguire con queste iniziative fino a che “le carceri israeliane non rimarranno vuote”. Un terzo costo è politico. L’accordo sembra dare vantaggi soprattutto a Hamas a scapito del suo rivale Fatah, che ha sostanzialmente fatto buon viso a cattivo gioco. Infatti, l’impegno di Hamas per il rilascio di oltre 1.000 persone (di diverse appartenenze) potrebbe legittimamente portare il movimento a sostenere di rappresentare non solo una parte ma tutto il popolo palestinese.

Allora, di fronte a queste considerazioni, perché Israele ha raggiunto l’accordo? La risposta di Mnookin è che Shalit rappresenta un simbolo; la sua immagine campeggia in tutto il territorio israeliano e il suo nome è ben conosciuto a tutti. Rappresenta quello che gli psicologi definiscono “un essere identificabile”. Invece i cittadini israeliani che potranno, eventualmente, correre rischi in futuro sono un gruppo non identificabile di persone; sono ciò che gli psicologi chiamano “vite statistiche”. Importanti ricerche nel campo della psicologia hanno dimostrato che, nell’assunzione delle decisioni, gli esseri umani spesso sono disposti a sostenere costi anche molto ingenti per salvare nell’immediato anche una sola vita “identificabile” piuttosto che adottare misure per la sicurezza di molte vite “statistiche”. Mnookin conclude dicendo che questo tipo di scelta è umana, anche se non è razionale, e questo rappresenta una pressione decisionale molto importante in situazioni del genere.

Io da parte mia aggiungo soltanto una cosa, che riguarda direttamente la situazione in Medio oriente e le prospettive di pace. Shalit, una volta liberato, ha detto di sperare che la sua liberazione sia un primo passo verso la pace, il primo fondamentale tassello capace di mettere in moto un processo più ampio. Ad esempio, ho letto che in virtù dell’accordo sarà allentato il blocco di Gaza che ormai da troppo tempo tiene in scacco la popolazione palestinese della Striscia. Bene, in virtù di questo alcuni si domandano se, così come il rapimento di Shalit è stato un simbolo delle tensioni in Medio Oriente negli ultimi anni, magari la sua liberazione potrà diventare un possibile simbolo di un percorso di “de-escalazione” del conflitto, in vista di un processo di pace finalmente efficace.

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