Dal volume "Il mondo, che sta nel cinema, che sta nel mondo" (Mimesis, Milano, 2005 - a cura di Francesco Cappa ed Emanuela Mancino), riporto nel mio blog un bello spunto dal saggio "Una provocazione" di Dario Forti (pag. 125) sulla incomprensione e, soprattutto, sulla sua capacità di costituire una base per il dialogo ed il riconoscimento.
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"La psicoanalista argentina Janine Piaget parla del 'malinteso' come della condizione naturale dell'incontrarsi delle persone; nel 'mal intendersi' ciò che conta è che in qualche misura ci si riesca a riconoscere; anche nell'incomprensione e nel conflitto si crea un po' alla volta, magari con fatica e lentezza, una base comune di conoscenza e di pratica di un metodo; si dà vita a dei mondi contigui, che un po' alla volta possono estendere l'area di sovrapposizione e di comune dominio. L'importante è non pretendere che la visuale sia assolutamente la stessa, che la propria sia quella che offra il panorama migliore, o ritenere che le distanze siano così eccessive che non valga nemmeno la pena di esporsi alla fatica del dialogo interdisciplinare.".
Sinceramente, trovo che sia davvero un peccato che anche all'interno del "nostro" mondo (intendo, della mediazione, che per sua natura dovrebbe essere flessibile ed aperto alle diverse prospettive) ci sia chi, proprio in questi giorni, vuole limitare lo stesso al confronto ed ai contributi diversi dagli usuali ambienti giuridico-economici.
Mi fa piacere ricordare a tutti che uno degli autori spesso citati a proposito della gestione costruttiva delle controversie, William Ury, è un antropologo...
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