giovedì 12 dicembre 2013

Il valore "simbolico" di una stretta di mano

Photo credits
La stretta di mano ha sempre avuto un grande valore nel corso della storia, a suggellare la fine di un periodo di ostilità, una rinnovata armonia, un accordo… 

Da La Repubblica dell’11/12/2013 (pag. 15) riporto allora un interessante articolo di Vittorio Zucconi che, partendo dalla stretta di mano tra il presidente USA Barack Obama e Raul Castro avvenuta durante i funerali di Nelson Mandela, fa un rapido excursus di alcune importanti strette di mano nel corso della storia. 

Un articolo “curioso” e, ritengo, utile per chi si occupa di gestione delle controversie…

Stretta di mano tra Barack e Castro Jr. ecco l’ultimo miracolo di Madiba. Il saluto allo stadio tra i due “nemici” è un segnale di disgelo
di VITTORIO ZUCCONI - La Repubblica, 11/12/2013

Con quel suo sorrisetto un po’ ironico, gentile e diffidente. Lungo le mani dell’Uomo passa la corrente della storia e fa cadere muri che sembravano infrangibili, rende possibile quello che fino a ieri era inconcepibile e scavalca rancori, anche in una stretta di mano, come quella che proprio Madiba Nelson Mandela offrì nel maggio del 1990 a F. W. DeKlerk, all’ultimo pretoriano all’Apartheid, sotto lo sguardo estatico e sbigottito dei bianchi e dei neri.

E’ stato l’ultimo successo di Mandela. Ma ciò che lui avrebbe subito spiegato ai due uomini, a Obama e a Castro Jr, è che il gesto di pace, il segnale che da migliaia di anni offre la mano nuda alla mano nuda del nemico per mostrarla disarmata, vale soltanto come l’intenzione di chi la allunga e la stringe. Nella storia essa è servita tanto a nascondere quanto a rivelare, a ingannare quanto a confessare. Tra le mani intrecciate di Hitler e Neville Chamberlain a Monaco 1938, come fra quelle, addirittura a tre, fra Stalin, Churchill e Truman nella Potsdam del 1945, correva già il veleno delle cattive intenzioni. O delle cattive conseguenze, come la stretta di mano nel 1977 fra Jimmy Carter e uno Scià Palhavi che già la Casa Bianca sapeva essere in agonia politica e si preparava a scaricare.

Eppure c’è un segnale antico, e irresistibile per noi “civili”, nell’immagine di un gesto che da urne funerarie greche di secoli avanti Cristo ci manda speranze di quella pace che si vorrebbe raggiungere in vita, prima che in morte, e non si ottiene mai del tutto. E se le mani che brevemente si intrecciano appartengono a nemici fino a quel momento mortali, metaforicamente e letteralmente, ancora più intenso è il desiderio di credere alla loro sincerità. In pochi centimetri, Richard Nixon, il falco irriducibile della “caccia ai Rossi”, colmò distanze di continenti ideologici e di cimiteri di guerra in Corea, stringendo la mano del detestato Mao Zedong nel 1972, garantendo quel mezzo secolo di pace fra i due colossi che ancora, barcollando, regge. E sotto le mani di Ulysses Grant, generale vittorioso del Nord, e Robert E Lee, generale sconfitto del Sud, scorreva nel 1865, invisibile ma possente, il fiume del sangue dei 600 mila morti che la loro guerra civile aveva fatto sgorgare.

Si può soltanto sperare, allora, che la stretta chiuda un passaggio e ne apra un altro, che non sia soltanto un trucco di prestidigitazione nel quale i due illusionisti si ritrovano, dopo la cerimonia, uno con il portafoglio e l’anello dell’altro, sfilato nella manipolazione. Il lunghissimo momento di sospensione del tempo che vedemmo a Camp David, millimetro dopo millimetro di esitazione, allacciare le dita di Ytzak Rabin e di Yasser Arafat preparò il martirio del premier israeliano senza davvero produrre pace nella dignità per i palestinesi, esattamente come la stretta di mano fra Menachem Begin e Anwar Sadat sigillò la pace fra Israele ed Egitto, buona cosa, ma firm ò la condanna a morte di Sadat, pessimo esito. Eppure nulla di meglio fu da allora raggiunto, e quel poco di bene fu sigillato fra le dita di quegli uomini. O di donne, come la manina guantata che la regina Elisabetta graziosamente offrì all’irlandese Martin McGuiness, per segnare la fine della guerriglia e della repressione che i leali soldati di Sua Maestà avevano inflitto ai ribelli dell’IRA.

C’è sempre, anche nella stretta più sincera, un retrogusto di ipocrisia, un fondo di pensieri non detti e di riserve, in quei gesti, che non guardiamo con la speranza che esprimano davvero svolte nel corso della storia. Ci possono essere effetti paradossali, come nel primo “handshake”, nella prima stretta fra un presidente americano e un leader sovietico, Kennedy e Krusciov, nella Vienna del 1961, quando Jfk pretese di accogliere l’ucraino restando sul gradino più alto, in un atteggiamento di condiscendenza che irritò molto l’uomo del Cremlino. E lo convinse che Kennedy fosse un peso leggero, un giovanotto impreparato, che non avrebbe reagito all’invio di missili a testata nucleare a Cuba.

Le strette di mano funzionano oltre la simbologia se arrivano alla conclusione, o nel processo, di un reciproco ravvedimento o almeno della reciproca accettazione. Reagan, il crociato contro l’Impero del Male strinse la mano di Gorbaciov nella Ginevra del 1985 e da quello si capì che tutto era cambiato, e sarebbe cambiato ancor più velocemente, dopo che i due uomini avevano riconosciuto, se non le ragioni, almeno l’umanità comune di un avversario sempre descritto come una caricatura da cartoon ideologico.

E tra Cuba e gli Stati Uniti, che già avevano visto una prima stretta di mano fra Clinton e Castro Sr, Fidel, l’incontro sulla bara di Mandela avviene mentre tutto l’apparato del “bloqueo”, dell’embargo, del boicottaggio, si sta sbriciolando come le mura di una fortezza inutile e anacronistica, ormai puntellata soltanto dal morente fanatismo dei vecchi “boia chi molla” tra la Florida e l’Avana. La loro, al funerale di Mandela, è una di quelle strette di mano che improvvisamente fanno chiedere ai protagonisti: ma perché tu e io siamo ancora nemici? Ma perché abbiamo sprecato tanto tempo e tanto odio? Esattamente come avrebbe detto Mandela.

Nessun commento:

Posta un commento