Canzone splendida, come altre contenute nell’album recentemente pubblicato dai tre artisti romani (Il padrone della festa) e che, come ad es. il brano Life is sweet, ha a mio avviso anche un profondo legame con la cultura negoziale e la risoluzione delle controversie…
Infatti, già dal primo ascolto, avvenuto in macchina in un tardo pomeriggio in una Roma bagnata da uno dei tanti temporali di questo fine novembre, emerge il significato di una canzone che invita a perdere qualcosa di se stessi per trovare altre (probabimente nuove) dimensioni, di se e della propria sfera, personale e professionale.
Tanti spunti per questa canzone, già a partire dal titolo, Come mi pare… sembra quasi di ascoltare la sintesi tratta da un improbabile monologo, dal tono saccente da “so-tutto-io”, di uno di quei tanti furbetti che troviamo intorno a noi (chissà, magari qualcuno, talvolta, anche all’interno del nostro stesso animo), nella vita di tutti i giorni.
Uno di quei monologhi che “esorta” a prendere tutto quello che è possibile, a vivere senza pensare alle conseguenze (soprattutto quelle provocate sugli altri… che tanto alla fine “se stanno male so’ problemi loro”). Ed infatti, la strofa, cantata da Max Gazzè, propone la visione di chi nella propria vita “fa come gli pare”. “Io so inventare so improvvisare…” o “sono libero ed incosciente quindi posso serenamente fare come mi pare…”; sono solo alcune delle frasi che dispensa chi - attraverso la “lettura” proposta dal testo - nella vita agisce, apparentemente, senza regole, se non le proprie, desunte da un contesto che invita a prendere senza dare, a saltare subito alle conclusioni, al successo senza lavoro. Senza preparazione, perché per avere a che fare con gli altri bastano “esperienza, buon senso ed istinto”. E già perché prepararsi comporta pensare e questo comporta investire tempo e risorse. E noi, di tempo da perdere non ne abbiamo… tanto gli altri si comportano come noi.
Ma questa è solo una prospettiva, che resta sullo sfondo della canzone; è una voce isolata rispetto alla risposta di un gruppo (la voce combinata dei tre cantanti) che, invece, nella parte iniziale, in quella centrale e, soprattutto, in quella finale della canzone condivide una visione “etica” della relazione interpersonale, invitando a basare la propria vita su valori sociali, collettivi, “egoisticamente altruistici” che costano fatica, certo… perché tutto ciò che impegna e ci impegna costa fatica, anche se mi piace pensare non per la fatica in se stessa, ma per perseguire un’ottica di crescita e di miglioramento, personale e collettivo. Il tutto in un incrocio in cui l’uno non potrebbe esistere senza l’altro. Una rete di contributi reciprocamente combinati che producono un risultato “socialmente” valido.
“Chi vuole suonare prima deve imparare ad ascoltare…” e “chi vuol capire prima deve riuscire a domandare…” recitano un paio di frammenti del testo. Sono solo alcuni suggerimenti, consigli, opinioni (chiamiamoli come vogliamo) per focalizzare l’attenzione su qualcosa di diverso da noi, gli altri. Così vicini, eppure a volte così (apparentemente) lontani, seppure inevitabilmente legati a noi. Infatti, senza gli altri, noi cosa saremmo? Cosa potremmo diventare? Cosa potremmo imparare?
Ed in questa sindrome generalizzata del free rider in cui non riusciamo ad andare con lo sguardo oltre l’orizzonte del nostro immediato tornaconto, essere disposti a riconoscere che gli altri esistono, che hanno interessi e prospettive diverse dai nostri non è solo segno di “buonismo” ipocrita, ma capacità di lavorare su se stessi per acquisire maggiori competenze nella “relazionalità generativa”, in grado di dare a se stessi ed agli altri un modo per apprendere, crescere e migliorare.
In questa canzone tutto parla di apertura verso l’altro, superamento dei propri limiti, senso di coscienza collettiva e superamento del dilemma del negoziatore, anche quando il testo ne postula il suo contrario. Rappresenta una continua tensione tra due estremi, in cui ci si domanda costantemente se sia meglio ottenere un risultato nell’immediato a scapito del rapporto col prossimo o essere disposti a trovare una relazione efficace per noi ed il nostro interlocutore che garantisca non solo un risultato valido per entrambi ma anche, se non soprattutto, la possibilità di arrivare al risultato della “relazione”. La sola in grado di farci ottenere benefici, nel breve, medio e lungo periodo. Partire dal risultato per risalire alla relazione, per poi tornare al risultato, potremmo dire, schematicamente (forse troppo).
“Chi vuole amare prima deve imparare a rinunciare…” recita la strofa conclusiva della canzone… ora, io non so se sono capace di amare, ma di certo vorrei dare al termine “rinuncia” una chiave di lettura “generativa”. Perché in questa accezione non è rinuncia quello a cui penso, ma capacità di lavorare nel mio interesse e nell’interesse dell’altro. Se “rinunciare” significa riconoscere che esistono interessi legittimi fuori ed oltre ai miei, allora sono lieto di rinunciare ad una parte di me. Magari quella che mi piace di meno… per acquistare tuttavia qualcosa in più, che solo gli altri sono in grado di darmi. Perché io posso ottenere dagli altri molto di più di quello che gli altri possono ottenere da me. Semplicemente perché io sono uno e gli altri… be’, sono un po’ di più… E’ un approccio alle relazioni e prima ancora un approccio alla vita stessa.
Apertura, magari non incondizionata, tuttavia apertura… in questo continuo scambio, dentro e fuori di noi. Mi piace pensare che la canzone di Fabi, Gazzè e Silvestri sia su questa stessa lunghezza d’onda… Ascoltiamola... ed impariamo ad ascoltare gli altri... hai visto mai che finiamo per "imparare" qualcosa?
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