martedì 28 gennaio 2014

La mediazione umanistica

In questi giorni ho iniziato a leggere il libro di Maria Martello [1], molto interessante per gli aspetti che riguardano temi a me molto cari, come la formazione del mediatore e le metodologie di mediazione.

Da questo traggo una riflessione sulla mediazione umanistica, modello che “integra” le prospettive ed i contributi di alcuni autori molto importanti a livello italiano ed internazionale e che si pone nell’ottica della logica, più generale, dello sviluppo della qualità del vivere civile e dell’evoluzione del concetto stesso di giustizia.

Per illustrare questa la Martello parte dalla riflessione di Jacqueline Morineau, autodidatta molto “creativa” che ha messo a disposizione della mediazione le sue competenze da archeologa ed archivista, ricevendo nel 1983 dal Ministro della Giustizia francese l’incarico di organizzare il primo servizio di mediazione del paese.


Il modello della Morineau [2] si basa sulla struttura della tragedia greca:
la teoria, o esposizione dei fatti;
la krisis, o il confronto che attiva le emozioni;
la catarsi, che porta ciascuno a compiere i passi necessari per superare il conflitto.

In questo modello il mediatore ha il compito assegnato nelle tragedie greche al coro: assume infatti il suolo dello specchio, di ascoltatore empatico, non giudicante, le posizioni delle parti in conflitto, nella consapevolezza che le cose non sono come sembrano ed il linguaggio verbale quasi mai riproduce fedelmente il modo di sentire dei contendenti. Attraverso il suo intervento, il mediatore facilita il superamento del conflitto, favorendo nelle parti il rovesciamento del modo di considerare gli aspetti del problema che hanno determinato il sorgere della controversia.

Tuttavia, la tragedia greca non è l’unico punto di riferimento della Morineau, perché questo ha anche, se non soprattutto, una radice spirituale, che la porta a vedere nel Cristo il mediatore perfetto [3]. Infatti, nella mediazione, l’aprirsi alla dimensione dello spirito insegna a superare le dimensione emozionale del conflitto per dare valore alla dimensione profonda dell’essere. In questo senso, il mediatore “non fa propria la sofferenza dei medianti”, perché non è altro che “il traghettatore, colui che riceve e che riflette per condurre il mediante verso la sua verità”.

Altro riferimento di cui parla la Martello è il modello della mediazione trasformativa di Joseph Folger [4]. Trasformativa in quanto l’interazione conflittuale delle parti viene “trasformata” da distruttiva in collaborativa e costruttiva, attraverso la facilitazione del mediatore e, tramite questo, si determina il ripristino del dialogo, dell’ascolto empatico, della non direttività, nella convinzione che le parti restino le sole protagoniste nel corso del procedimento.

L’intervento del mediatore è tutto sul procedimento, con il compito di cogliere ogni situazione utile per promuovere il cambiamento e facilitare ogni opportunità di passaggio “comunicativo”, dal non ascolto all’ascolto attivo.

Trasformazione, nell’ottica di Folger, è soprattutto trasformazione dell’interazione tra le parti che le porta ad un cambiamento nella loro forma mentis. Ad essa sono connessi due aspetti che rappresentano i “pilastri” del modello: l’empowerment, ossia la percezione delle parti sul proprio valore e la capacità di prendere le decisioni che riguardano la propria vita; il riconoscimento dell’altro, nel senso di comprensione del suo ruolo nel procedimento per la risoluzione della controversia, ma anche del suo punto di vista.

A seguire Maria Martello cita Giovanni Scotto [5] che, nell’ambito del suo approccio “sistemico trasformativo”, propone tre linee evolutive nella pratica della mediazione: una maggiore consapevolezza del contesto in cui si svolge il conflitto, la natura riflessiva del lavoro del mediatore e l’interpretazione del procedimento di mediazione come co-costruzione di mappe cognitive del conflitto e della sua trasformazione.

Nella carrellata di modelli di mediazione che si rifanno a profili umanistici, la Martello cita anche quello di Gary Friedman [6] che in qualche modo è affine a quello trasformativo, poiché concentra il ruolo del mediatore su quello di gestione, ossia facilitazione, attraverso cui da alla parti il massimo del supporto per renderle “protagoniste” assolute del procedimento, pur senza alcuna interferenza rispetto ai contenuti dell’accordo (che resta di esclusiva pertinenza delle parti). Anche in questo caso resta fondamentale il “percorso” di comprensione delle parti circa i reciproci interessi e bisogni, che li porta ad attraversare insieme il conflitto, elemento fondamentale per gli obiettivi che sono alla base del metodo.

Nel modello proposto da Friedman (e non solo, visto che sono un elemento comune della mediazione trasformativa) gli incontri riservati non hanno molta ragione d’essere, soprattutto per evitare che il mediatore resti l’unico depositario delle informazioni ricevute da ciascuna parte, che potrebbe eventualmente indurlo ad utilizzarle per arrivare alla persuasione delle parti, derogando così ai suoi compiti nel procedimento di mediazione.

Il modello di Friedman si basa su quattro assunti fondamentali: il potere della comprensione; la responsabilità delle parti sul “se” e “come” arrivare all’accordo; i maggiori benefici per le parti derivanti dal lavorare insieme; la maggiore efficacia nella risoluzione della controversia derivante dall’emersione di cosa si celi dietro le posizioni manifeste.

Rispetto alle fasi, in particolare mi sembra molto interessante la prima, in cui il mediatore illustra alle parti il metodo ed approfondisce con le parti le loro reali motivazioni, anche per inquadrare il contesto sulla base del quale decideranno se aderire al procedimento o abbandonarlo. Fase questa che ricorda molto da vicino la dinamica dell’”incontro preliminare” previsto dal nuovo art. 8.1 del d.lgs. 28/2010, così come modificato dalla L. 98/2013.  

In conclusione di questa rapida carrellata, mi sembra importante mettere in evidenza che, secondo la Martello, i modelli che sottolineano un certo “pragmatismo” nella mediazione (ed il pensiero va immediatamente a quello “problem solving”) stanno perdendo peso a vantaggio di modelli che privilegiano invece caratteristiche maggiormente trasformative ed umanistiche del mediatore (perchè più vicine alle parti, ai loro interessi ed alle modalità comunicative, emozionali e relazionali che si sviluppano nel procedimento), pur “riviste” attraverso elementi tipici di modelli “pragmatici” (come ad es. gli incontri riservati con il mediatore., che per la Martello restano fondamentali). 

[1] M. MARTELLO, La formazione del mediatore, UTET Giuridica, Torino, 2014 (pp. 77-84).
[2] J. MORINEAU, Lo spirito della mediazione, Franco Angeli, Milano, 1998.
[3] Su questo tema, si veda anche P.S. NICOSIA, Gesù mediatore, Monti, Saronno (VA), 2011.
[4] R.A. BARUCH BUSH - J.P. FOLGER, La promessa della mediazione, Valsecchi, Firenze, 2009.
[5] G. SCOTTO, Mediare conflitti: uno sguardo trasformativi, in P. LUCARELLI - G. CONTE (a cura di), Mediazione e progresso, UTET Giuridica, Torino, 2012.
[6] G. FRIEDMAN - J. HIMMELSTEIN, La mediazione attraverso la comprensione, Franco Angeli, Milano, 2012.

La foto è dell'amico Cesare Rossi (link al suo album su flickr).

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