Mi fa molto piacere ospitare nel mio blog contributi esterni “di qualità” (almeno, quelli che secondo me lo sono!). Stavolta ospito volentieri la tesina di Raffaela Corrias che ho conosciuto al “Master in Mediazione culturale e religiosa”, organizzato dall’ASUS - Accademia di Scienze Umane e Sociali e dalla Facoltà di Filosofia dell’Università Salesiana.
Oltre alla frequenza del master, Raffaela collabora, a livello locale e internazionale, con Associazione Mondo 2000 e Collegio del Mondo Unito dell’Adriatico in progetti di formazione, di interculturalità e di promozione della cultura del volontariato. La tesina riguarda il modulo “Mediazione e gestione interculturale dei conflitti”, da me tenuto.
Buona lettura! :)
Buona lettura! :)
Stefano
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“L’ascoltatore fino e puro deve immergersi con la concentrazione fino a cogliere il senso profondo del discorso e la reale disposizione d’animo di chi parla.” (Plutarco)
Soffermarsi sulla centralità di un buon ascolto capace di favorire il riconoscimento degli interlocutori e, di conseguenza, uno scambio, un dialogo, volto alla trasformazione di un conflitto e/o al raggiungimento di un obiettivo vincente per le parti in causa, significa cominciare a comprendere quale sia il ruolo di un mediatore.
La filosofia stessa, attraverso la nascita del cosiddetto “movimento del pensiero dialogico” nel XX secolo, fornisce degli spunti estremamente interessanti in questa direzione. Il movimento del pensiero dialogico ebbe, infatti, come propria peculiarità il passaggio “dall'egotismo all'alterità”: l’io è, si scopre, si conosce e si rivela grazie al tu. Il dialogo, nell’ascolto reciproco, è l’incontro tra due esistenze che si impegnano ad esplorare insieme la verità di ciò che sono e sentono.
Questo aspetto si riscontra con evidenza nella Bibbia, terreno di incontro e scontro linguistico, dove Dio e l’uomo si cercano, si perdono, rilanciano, si ascoltano, attraversano il deserto del silenzio, si capiscono e vivono il dramma dell’incomprensione. L’apertura dialogica è autentica solo quando l’esito del dialogo non è conosciuto a priori. La novità può germogliare da un sincero ascolto e scambio con l’altro che completa e trasforma realmente. Dio stesso non possiede la totalità delle risposte e si rivolge all’uomo per modellare insieme a lui la Storia e le storie. La parola, davar, ha una vocazione dialogica, creatrice. La parola ebraica è già creazione in sé (diversamente dal nostro detto “tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare”). Se si riduce la parola a cosa tout-court, la si degrada a chiacchiera incapace di promuovere un incontro vero tra un io e un tu. Il dialogo ha bisogno dell’ascolto, del silenzio e della rinuncia e deve essere capace di misurarsi con la precarietà. Come sottolinea André Neher, si instaura la relazione solo quando si accetta l’universo dell’altro mediante il sacrificio del proprio. L’altro non è colui che va convinto, ma colui che va accolto. La mediazione e gestione dei conflitti, dunque, sono possibili ed efficaci solo se orientate da un reale e profondo ascolto.
Il dizionario online Sabatini Coletti definisce il verbo ascoltare come “stare intenzionalmente ad udire qualcosa o qualcuno”. Da questa definizione emergono due aspetti centrali: l’intenzionalità e, quindi, la scelta dell’ascolto, e il fatto che oltre ad udire qualcuno si possa anche udire qualcosa, il che richiama a un’attenzione a 360 gradi capace di cogliere aspetti legati non solo al verbale, ma anche al paraverbale e all’ambiente in cui avviene l’ascolto.
Molti disagi sono generati da una mancanza di ascolto del proprio sé e dell’altro. Così anche molti conflitti, tra persone, comunità, gruppi etnici, nazioni, si sviluppano e si incancreniscono per mancanza di ascolto. In un mondo e in una società come la nostra, dove emergono situazioni che indicano una incapacità all’ascolto, le “professioni di ascolto” assumono un ruolo di particolare rilevanza.
La figura stessa del mediatore rientra, per alcuni aspetti, in questa categoria. Il mediatore, infatti, non può essere tale a prescindere dallo sviluppo di una capacità di ascolto articolata e paziente. Per mediare e, quindi, rendere compatibili punti di vista diversi, è innanzitutto fondamentale essere consapevoli dell’esistenza di tali punti di vista. Per esserne consapevoli è necessario, appunto, ascoltare.
Ascoltare è funzionale al capire ed è un’attività chiamata ad attraversare diversi livelli di profondità. Molto interessante, a questo proposito, è il TED Talk di Ernesto Sirolli (http://www.youtube.com/watch?v=chXsLtHqfdM) “Want to help? Shut up and listen!”. Ernesto Sirolli racconta, infatti, dei sui primi anni di lavoro nella cooperazione italiana in Africa costellati da una serie di insuccessi e condivide, nello specifico, la storia di un progetto realizzato e fallito in Zambia: la volontà di promuovere l’agricoltura in un determinato territorio fallì proprio per mancanza di ascolto delle persone locali.
Come può, dunque, il mediatore mettersi in ascolto? È, innanzitutto, importante definire alcuni aspetti che devono essere coltivati dal mediatore ai fini di un buon ascolto:
- mantenere il contatto oculare con i propri interlocutori
- lasciar finire di parlare l’interlocutore
- approfondire la comunicazione con domande mirate
- controllare la comunicazione non verbale
- rimandare all’interlocutore riconoscimenti positivi
- sospendere il giudizio
- rimanere obiettivo
Partendo dal presupposto che esiste una dispersione del messaggio nel suo passaggio da emittente a ricevente, è fondamentale per il mediatore ascoltare per capire e parlare per farsi capire anche in relazione al contesto culturale (tale relazione al contesto rappresenta, essa stessa, una importante forma di ascolto).
Ascoltare, per il mediatore, significa impegnarsi per raccogliere il maggior numero possibile di informazioni. Questa attività sarà possibile se esisterà un equilibrio efficace tra il tempo dedicato all’ascolto vero e proprio, a quello dedicato a fare domande, a quello destinato a verificare la propria comprensione e, infine, al tempo investito per fare una sintesi delle argomentazioni presentate dall’interlocutore. Sarà importante ascoltare attentamente ciò che la persona dice (significato oggettivo) e come lo dice (significato soggettivo). Per “ascolto attivo”, dunque, non si intende che il mediatore dica cosa fare, prestando attenzione unicamente al “contenuto razionale” del consiglio e fornendo soluzioni sensate, ma piuttosto che sia mosso dall’empatia ossia dello sforzo reale alla comprensione e dalla manifestazione sensibile della propria partecipazione.
Il processo di ascolto è, quindi, articolato (è necessario prestare attenzione a quello che la persona dice e a come lo dice cogliendo eventuali “incongruenze” per far emergere il cuore del problema e del conflitto) e al tempo stesso paziente (può, infatti, essere un processo lungo e laborioso).
Prestare attenzione all’interlocutore significa, da una parte, metterlo a proprio agio e, dall’altra, mettersi nella condizione di massimo ascolto in modo da poter seguire, anche, i movimenti del corpo, le espressioni del viso, gli stati emotivi. Chi ascolta, inoltre, dovrà prestare attenzione alla posizione assunta nella mediazione (giusta vicinanza/distanza, contatto oculare, piegarsi in avanti verso l’interlocutore, …).
Fare, poi, domande è centrale per due ragioni: permette al mediatore di facilitare e approfondire la propria comprensione, e aiuta l’interlocutore stesso in un processo di chiarificazione personale. Le sei “tracce di domanda” - chi, come, cosa, quando, dove, perché - sono chiave. Inoltre, occorre un lavoro accurato di preparazione alla mediazione per definire con se stessi quali siano le informazioni che si vorrebbero raccogliere e quali le modalità per raccoglierle.
L’improvvisazione è a rischio di generare un insuccesso in tal senso. Le domande vanno poste con cognizione di causa secondo una sorta di “strategia” valida ai fini dell’ascolto a favore della mediazione.
Le domande, quindi, vanno poste in relazione al tipo di risposta che si desidera esplorare. Esistono domande chiuse che favoriscono un campo di risposta delimitato (la risposta sarà un sì o un no); domande aperte che mirano a risposte articolate, allargando il campo di azione; risposte ipotetiche che permettono all’interlocutore di intravvedere scenari ipotetici (“immagina di …, come ti vedi …?”); domande circolari il cui obiettivo è quello di aiutare le persone a percepirsi in relazione agli altri (chiedere all’interlocutore qualcosa su un’altra persona); domande alternative la cui finalità è mettere l’interlocutore davanti alle diverse alternative possibili; domande multiple che permettono di porre una serie di quesiti in un’unica domanda.
Il mediatore dovrà evitare ogni domanda di tipo tendenzioso volta ad ottenere dall’interlocutore una risposta determinata. Nel porre domande, il mediatore dovrà evitare un gergo settoriale e dovrà “mettersi al livello” dei propri interlocutori ossia dovrà adattarsi al loro “stile”. Dovrà, inoltre, favorire una comunicazione non violenta capace di mettere in relazione i propri bisogni e i sentimenti con i bisogni e i sentimenti altrui.
L’ascolto aiuterà il mediatore nel raggiungimento di un obiettivo fondamentale ai fini della trasformazione e/o risoluzione di un conflitto: la distinzione delle posizioni (quello che l’interlocutore dice di volere) dagli interessi (quello che l’interlocutore desidera in realtà) delle parti in causa. Lavorare sugli interessi significa lavorare al cuore del conflitto e permette il consolidamento del riconoscimento dell’altro, del suo sguardo sul problema, del suo intendere e del suo volere reali.
A livello di conflitti internazionali, dove la tendenza è quella di rifiutare e/o rinnegare l’altro, il suo bagaglio, il suo modo di leggere il passato e il futuro e i suoi desideri, il riconoscimento reale delle parti è un presupposto fondamentale. Il riconoscimento, infatti, permette di far entrare in gioco anche quelle parti che rifiutano ogni regola (si pensi al caso del riconoscimento della RENAMO da parte della Comunità di sant’Egidio nella mediazione volta a risolvere il conflitto in atto in Mozambico).
L’ascolto rappresenta, dunque, una caratteristica fondante delle società inclusive e ha la capacità di contribuire a prevenire e a risolvere conflitti grazie alla ricerca e promozione del riconoscimento delle parti, all’elaborazione di obiettivi comuni, alla riconciliazione derivante dalla costruzione di una fiducia sociale, alla trasformazione delle mentalità. L’ascolto evita l’isolamento delle parti ed aiuta a superare una logica per cui non possano esistere alternative alla lotta armata per risolvere un conflitto.
Ascoltare significa, per il mediatore, realizzare buona parte del suo lavoro. Per questo una buona formazione ai vari livelli di mediazione, non dovrebbe mai prescindere dal favorire lo sviluppo dell’arte dell’ascolto.
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