Da Blog conciliazione – 3 ottobre 2012
di Nicola Giudice
La mediazione propone ai suoi sostenitori e ai suoi
critici una grande quantità di temi sempre molto dibattuti. In cosa consiste l’attività del mediatore?
Il
mediatore dev’essere un esperto del tema oggetto della lite o piuttosto un
profondo conoscitore e gestore delle relazioni umane? Quale dev’essere l’obiettivo di un mediatore?
Raggiungere un accordo o piuttosto intervenire sulla relazione tra le parti, in
modo che esse possano in un qualche modo fabbricare con le proprie mani gli
strumenti per trovare nuovi modi di interazione? Come in tutti i dibattiti,
anche in questo caso ci sono fazioni in lotta, accesi fondamentalisti e fieri
truebelievers, pronti a battersi allo sfinimento per affermare la correttezza
delle proprie convinzioni, dimostrando talvolta una rigidità di giudizio non
sempre consona ai cultori della mediazione. Terreno di confronto ideale per queste sfide è
internet: i social network e i blog ospitano contributi talvolta molto
appassionanti e vivaci. Alcuni post letti su LinkedIn, in particolare, mi
spingono alle seguenti riflessioni. Riassumo brevemente i termini del confronto cui ho
assistito.
Il
moderatore, un mediatore americano, lancia il seguente tema di discussione
“Qual è lo stile di mediazione che preferisci? Facilitativo, valutativo,
trasformativo? Altro ancora?”. Fin
dai primi commenti, si distinguono due protagonisti, che per comodità
indentificheremo in Charlie, pro mediazione valutativa, e Eddie, sostenitore
all’opposto di un approccio facilitativo, in cui le parti sono assistite dal
mediatore in un accurato percorso di autoanalisi per comprendere cosa potranno
fare per uscire dalla situazione conflittuale nella quale si trovano
intrappolate.
Il
confronto, interessante e basato su concreti esempi pratici, crea una
situazione di impasse. Sia Charlie
che Eddie si trovano a sostenere che, in base alla loro esperienza, il proprio
metodo funziona molto bene e che, alla fine, il sostenitore dell’altro metodo
si trova in errore. Quello che sia Charlie che Eddie sostengono con forza è che
solo il proprio modello è quello “giusto”, mentre l’altro è poco meno che
mistificazione, inutile e illusorio se non dannoso per le parti.
A questo
punto interviene una mediatrice, Kate, anch’essa americana, che in qualche modo
“bacchetta” entrambi: “Eddie e
Charlie, avete entrambi ragione. Però sbagliate! Voi partite dal presupposto di
sapere di cosa hanno bisogno le parti. Ciascuno ha una propria medicina – il
proprio stile di mediazione – e come tale lo somministrate. Poiché non si ha la
controprova di come funzioni l’altro approccio, o qualunque altra alternativa,
è possibile dimostrare che quanto avete fatto, se correttamente impostato, dia
comunque dei risultati. Insomma, partendo dal presupposto che ciò che fate è
quello di cui le parti hanno bisogno, non sbaglierete mai! Il vostro errore, se
posso permettermi, è che entrambi pensate di sapere cosa effettivamente le
parti vogliano dalla mediazione. Può darsi che … vogliano una mediazione
facilitativa e che un comportamento valutativo non sia la cosa migliore. Oppure
viceversa. Ma appunto, finché non lo chiedi, non puoi saperlo. Io faccio così:
all’inizio di un incontro cerco di capire cosa vogliono le parti dalla
mediazione e sulla base di quanto mi dicono – o di quanto capisco – mi metto a
lavorare”. Non sono le parti a scegliere il modello di mediazione ma è il
mediatore ad adattarsi alle esigenze delle parti e del conflitto.
“Penso
anche” – aggiunge Kate – “che le parti non possano sapere se sia più adeguato
per loro un approccio, valutativo, facilitativo, trasformativo o chissà
cos’altro. Allo stesso modo, non è
il paziente a poter dire se serve un intervento chirurgico o una terapia
farmacologica. Dev’essere il medico a decidere cosa sia meglio. La sua però non
è una decisione preconcetta, ma basata sull’interpretazione dei sintomi e sulla
lettura delle analisi”.
Se si
accoglie questa tesi, si deve accettare l’idea che il mediatore debba
abbandonare l’etichetta di “facilitativo” o “valutativo” o altro ancora. Al contrario, sarà opportuno seguire l’approccio
più adatto in base al caso concreto. È veramente così? All’atto pratico, cosa
accade al tavolo della mediazione? In base alla mia esperienza, la sensazione è
che le controversie differiscano profondamente l’una dall’altra. Il
comportamento delle persone, di fronte ad una identica criticità, può variare
molto. Lo stesso contesto di fondo, dato dalla necessità di riconoscimento,
dalle rivendicazioni economiche o da altri bisogni, induce le parti a scelte
differenti. Davanti a tale eterogeneità di situazioni, ho spesso osservato come
i mediatori più validi siano quelli in grado di adattarsi al cambiamento,
capaci di individuare il giusto modo per gestire la situazione nella modalità
più adeguata.
Se
dovessi quindi stilare una classifica di merito dei mediatori, piuttosto che in base ai modelli di mediazione da
loro prediletti, utilizzerei il grado di flessibilità nella gestione
dell’incontro e la capacità di adattare le proprie convinzioni alle esigenze
concrete.
La
divisione in bande avverse, per di più, non solo non sembra essere utile, ma
appare un esercizio sterile
laddove si insista per cercare di individuare, nella gestione di una
mediazione, quali possano essere i comportamenti ascrivibili ad una o ad
un’altra scuola di pensiero. Quasi inconsapevolmente, infatti, il mediatore,
nel percorso di maturazione tipico di chi accumula esperienze, tende ad
abbandonare l’impostazione scolastica, che pure è essenziale per iniziare a
muoversi in un incontro di mediazione. Come uno sciatore che giorno dopo giorno
adegua i principi che ha appreso dal proprio maestro alle condizioni della
pista che sta scendendo, così il mediatore adotta strategie miste, che traggono
spunto dai modelli così come dalla vita reale, spesso non classificabili anche
dall’occhio dell’osservatore esperto. Sul punto si può allora concludere che
l’atteggiamento “fazioso” sia più proprio dei mediatori inesperti, come ritengo
siano Charlie e Eddie.
Forte di
questa convinzione, mi sono di recente confrontato con alcuni mediatori, colleghi ed avvocati su un altro quesito: su che
basi un mediatore può essere considerato valido? O, in altri termini, quale
risultato deve raggiungere affinché si possa affermare che egli abbia svolto il
proprio lavoro in modo corretto? O, ancora, a cosa dovrebbe servire la
mediazione?
Si
comprende subito allora come certe visioni un po’ estreme siano legate
all’obiettivo che essi si propongono:
mi comporto in un certo modo perché ritengo che sia il più appropriato per
raggiungere un certo risultato. Alcuni, molti in verità, sostengono che tale
risultato non possa essere che l’accordo. Solo se c’è un’intesa sottoscritta
dalle parti si può affermare che il mediatore abbia veramente raggiunto lo
scopo della sua attività. Altri, forse in numero inferiore, ritengono che
l’accordo non debba essere il fine ultimo della mediazione, quanto piuttosto
una possibile, ma non necessaria, conseguenza dell’intervento del mediatore. La
risposta, a mio avviso, si trova nel suggerimento di Kate: chiediamolo alle
parti! Se quindi le parti esprimeranno la necessità di raggiungere un accordo
in tempi brevi, sarà opportuno che il mediatore provi a verificare ogni strada
che conduca in tale direzione. Se, viceversa, le parti manifestassero la
necessità di recuperare il rapporto preesistente e comunque di stabilire regole
di serena convivenza, ad esempio nel caso di due condomini o di due imprese che
hanno tutto l’interesse a proseguire in una relazione commerciale, il mediatore
dovrà allora dedicarsi con grande impegno a gestire la relazione tra le parti e
gli aspetti emotivo-conflittuali con la massima attenzione.
Quanto
sopra ci fa capire la complessa articolazione della mediazione: strumento che, in base ai bisogni delle parti,
può essere condotto dal mediatore secondo modalità diverse per giungere ad una
varietà di soluzioni. L’ambito di azione del mediatore diventa così
estremamente ampio, tracciando un’area dentro la quale convivono vari stili e
vari modelli di mediazione. L’idea di mediazione inizia così ad assomigliare ad
un ombrello sotto il quale, inevitabilmente, rifioriscono distinzioni, fazioni
e divergenze che ci riportano alle premesse iniziali, alimentando così un
dibattito circolare e destinato a continuare per lungo tempo ancora.
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