giovedì 4 ottobre 2012

Interessante articolo su facilitazione, valutazione, affini e collaterali


Da Blog conciliazione – 3 ottobre 2012

di Nicola Giudice

La mediazione propone ai suoi sostenitori e ai suoi critici una grande quantità di temi sempre molto dibattuti. In cosa consiste l’attività del mediatore?

Il mediatore dev’essere un esperto del tema oggetto della lite o piuttosto un profondo conoscitore e gestore delle relazioni umane? Quale dev’essere l’obiettivo di un mediatore? Raggiungere un accordo o piuttosto intervenire sulla relazione tra le parti, in modo che esse possano in un qualche modo fabbricare con le proprie mani gli strumenti per trovare nuovi modi di interazione? Come in tutti i dibattiti, anche in questo caso ci sono fazioni in lotta, accesi fondamentalisti e fieri truebelievers, pronti a battersi allo sfinimento per affermare la correttezza delle proprie convinzioni, dimostrando talvolta una rigidità di giudizio non sempre consona ai cultori della mediazione. Terreno di confronto ideale per queste sfide è internet: i social network e i blog ospitano contributi talvolta molto appassionanti e vivaci. Alcuni post letti su LinkedIn, in particolare, mi spingono alle seguenti riflessioni. Riassumo brevemente i termini del confronto cui ho assistito.

Il moderatore, un mediatore americano, lancia il seguente tema di discussione “Qual è lo stile di mediazione che preferisci? Facilitativo, valutativo, trasformativo? Altro ancora?”. Fin dai primi commenti, si distinguono due protagonisti, che per comodità indentificheremo in Charlie, pro mediazione valutativa, e Eddie, sostenitore all’opposto di un approccio facilitativo, in cui le parti sono assistite dal mediatore in un accurato percorso di autoanalisi per comprendere cosa potranno fare per uscire dalla situazione conflittuale nella quale si trovano intrappolate.

Il confronto, interessante e basato su concreti esempi pratici, crea una situazione di impasse. Sia Charlie che Eddie si trovano a sostenere che, in base alla loro esperienza, il proprio metodo funziona molto bene e che, alla fine, il sostenitore dell’altro metodo si trova in errore. Quello che sia Charlie che Eddie sostengono con forza è che solo il proprio modello è quello “giusto”, mentre l’altro è poco meno che mistificazione, inutile e illusorio se non dannoso per le parti.

A questo punto interviene una mediatrice, Kate, anch’essa americana, che in qualche modo “bacchetta” entrambi: “Eddie e Charlie, avete entrambi ragione. Però sbagliate! Voi partite dal presupposto di sapere di cosa hanno bisogno le parti. Ciascuno ha una propria medicina – il proprio stile di mediazione – e come tale lo somministrate. Poiché non si ha la controprova di come funzioni l’altro approccio, o qualunque altra alternativa, è possibile dimostrare che quanto avete fatto, se correttamente impostato, dia comunque dei risultati. Insomma, partendo dal presupposto che ciò che fate è quello di cui le parti hanno bisogno, non sbaglierete mai! Il vostro errore, se posso permettermi, è che entrambi pensate di sapere cosa effettivamente le parti vogliano dalla mediazione. Può darsi che … vogliano una mediazione facilitativa e che un comportamento valutativo non sia la cosa migliore. Oppure viceversa. Ma appunto, finché non lo chiedi, non puoi saperlo. Io faccio così: all’inizio di un incontro cerco di capire cosa vogliono le parti dalla mediazione e sulla base di quanto mi dicono – o di quanto capisco – mi metto a lavorare”. Non sono le parti a scegliere il modello di mediazione ma è il mediatore ad adattarsi alle esigenze delle parti e del conflitto.

“Penso anche” – aggiunge Kate – “che le parti non possano sapere se sia più adeguato per loro un approccio, valutativo, facilitativo, trasformativo o chissà cos’altro. Allo stesso modo, non è il paziente a poter dire se serve un intervento chirurgico o una terapia farmacologica. Dev’essere il medico a decidere cosa sia meglio. La sua però non è una decisione preconcetta, ma basata sull’interpretazione dei sintomi e sulla lettura delle analisi”.

Se si accoglie questa tesi, si deve accettare l’idea che il mediatore debba abbandonare l’etichetta di “facilitativo” o “valutativo” o altro ancora. Al contrario, sarà opportuno seguire l’approccio più adatto in base al caso concreto. È veramente così? All’atto pratico, cosa accade al tavolo della mediazione? In base alla mia esperienza, la sensazione è che le controversie differiscano profondamente l’una dall’altra. Il comportamento delle persone, di fronte ad una identica criticità, può variare molto. Lo stesso contesto di fondo, dato dalla necessità di riconoscimento, dalle rivendicazioni economiche o da altri bisogni, induce le parti a scelte differenti. Davanti a tale eterogeneità di situazioni, ho spesso osservato come i mediatori più validi siano quelli in grado di adattarsi al cambiamento, capaci di individuare il giusto modo per gestire la situazione nella modalità più adeguata.

Se dovessi quindi stilare una classifica di merito dei mediatori, piuttosto che in base ai modelli di mediazione da loro prediletti, utilizzerei il grado di flessibilità nella gestione dell’incontro e la capacità di adattare le proprie convinzioni alle esigenze concrete.

La divisione in bande avverse, per di più, non solo non sembra essere utile, ma appare un esercizio sterile laddove si insista per cercare di individuare, nella gestione di una mediazione, quali possano essere i comportamenti ascrivibili ad una o ad un’altra scuola di pensiero. Quasi inconsapevolmente, infatti, il mediatore, nel percorso di maturazione tipico di chi accumula esperienze, tende ad abbandonare l’impostazione scolastica, che pure è essenziale per iniziare a muoversi in un incontro di mediazione. Come uno sciatore che giorno dopo giorno adegua i principi che ha appreso dal proprio maestro alle condizioni della pista che sta scendendo, così il mediatore adotta strategie miste, che traggono spunto dai modelli così come dalla vita reale, spesso non classificabili anche dall’occhio dell’osservatore esperto. Sul punto si può allora concludere che l’atteggiamento “fazioso” sia più proprio dei mediatori inesperti, come ritengo siano Charlie e Eddie.

Forte di questa convinzione, mi sono di recente confrontato con alcuni mediatori, colleghi ed avvocati su un altro quesito: su che basi un mediatore può essere considerato valido? O, in altri termini, quale risultato deve raggiungere affinché si possa affermare che egli abbia svolto il proprio lavoro in modo corretto? O, ancora, a cosa dovrebbe servire la mediazione?

Si comprende subito allora come certe visioni un po’ estreme siano legate all’obiettivo che essi si propongono: mi comporto in un certo modo perché ritengo che sia il più appropriato per raggiungere un certo risultato. Alcuni, molti in verità, sostengono che tale risultato non possa essere che l’accordo. Solo se c’è un’intesa sottoscritta dalle parti si può affermare che il mediatore abbia veramente raggiunto lo scopo della sua attività. Altri, forse in numero inferiore, ritengono che l’accordo non debba essere il fine ultimo della mediazione, quanto piuttosto una possibile, ma non necessaria, conseguenza dell’intervento del mediatore. La risposta, a mio avviso, si trova nel suggerimento di Kate: chiediamolo alle parti! Se quindi le parti esprimeranno la necessità di raggiungere un accordo in tempi brevi, sarà opportuno che il mediatore provi a verificare ogni strada che conduca in tale direzione. Se, viceversa, le parti manifestassero la necessità di recuperare il rapporto preesistente e comunque di stabilire regole di serena convivenza, ad esempio nel caso di due condomini o di due imprese che hanno tutto l’interesse a proseguire in una relazione commerciale, il mediatore dovrà allora dedicarsi con grande impegno a gestire la relazione tra le parti e gli aspetti emotivo-conflittuali con la massima attenzione.

Quanto sopra ci fa capire la complessa articolazione della mediazione: strumento che, in base ai bisogni delle parti, può essere condotto dal mediatore secondo modalità diverse per giungere ad una varietà di soluzioni. L’ambito di azione del mediatore diventa così estremamente ampio, tracciando un’area dentro la quale convivono vari stili e vari modelli di mediazione. L’idea di mediazione inizia così ad assomigliare ad un ombrello sotto il quale, inevitabilmente, rifioriscono distinzioni, fazioni e divergenze che ci riportano alle premesse iniziali, alimentando così un dibattito circolare e destinato a continuare per lungo tempo ancora.

Nessun commento:

Posta un commento