Ringraziando l’amico e collega Marco (che ospito spesso nel
mio blog), riporto da Paola Lucarelli un articolo molto interessante sulla
mediazione e sulle opportunità che essa offre apparso su Il Sole 24 ore.
Sinceramente non mi trovo d’accordo su alcune scelte
“semantiche” (ad es. i concetti di “diritto sperimentale”, “diritto della
mediazione”, ecc.), perché ritengo che la mediazione sia cosa “diversa” dal
diritto e trovo che a tratti l'articolo sia scritto con toni un po' troppo "legal"; tuttavia trovo che la Lucarelli faccia considerazioni molto
interessanti sulla presenza dell’avvocato in mediazione e sulla famosa
(famigerata?) questione della condizione di procedibilità, che riflette anche
il mio modo di pensare. Da leggere perché è davvero un contributo che mostra
passione e fiducia nella mediazione, oltre che consapevolezza e competenza. Un bel segnale...
A titolo esemplificativo, riporto la fine dell’articolo:
“Queste le ragioni che giustificano ancora uno sforzo, il
più importante, forse, da parte del governo. Quello che conduce al piano alto
della qualità della formazione e dei servizi strutturati di mediazione. È qui,
infine, che il diritto può divenire generativo di progresso sociale. Ciò che
occorre è un riconoscimento autonomo scientifico della Mediazione, al pari e
distintamente dal Processo, affinché dietro lo studio dei procedimenti ADR non
vi sia solo pratica ma autonomia scientifica e didattica, con indirizzi
metodologici definiti e sistemi concettuali adeguati e autonomi. Ciò che è
urgente al fine del raggiungimento dell’obiettivo che tanto ha mosso gli
studiosi e la politica, è creare le condizioni affinché si diffonda,
finalmente, il sapere Essere Mediatore, il sapere Accompagnare l’individuo in
Mediazione, il sapere Essere Individuo Adulto, Consapevole e Responsabile”.
_______________________________
Mediazione, la “chiave d’oro” per la soluzione diretta dei
conflitti
Di Paola Lucarelli
(la prima parte dell’articolo verrà pubblicata su Guida al
Diritto 46/2013)
Premesso il senso e il fine della legge sulla mediazione,
siamo finalmente in grado di leggerla. L’aggettivo facilitativo è espressione
felice scelta da Francesco Luiso per stabilire il giusto peso di alcune scelte
normative. Egli sottolinea come i precetti della legge sulla mediazione
attengano a ciò che nel mondo giuridico è rimesso all’autonomia negoziale, per
cui tutto ciò che si pone in relazione all’accordo di mediazione (scelta
dell’organismo, del mediatore, modalità di avvio, etc.) non può che essere
letto quale spinta verso il raggiungimento dell’accordo, che rende più agevole
la sua conclusione. L’interesse che sottende certe scelte è dunque quello
esclusivamente privato delle parti in mediazione a definire la lite attraverso
l’accordo. Si tratta di norme che, lungi dal porre vincoli inderogabili,
dettano modalità soggette pur sempre alla volontà dei privati.
L’impronta facilitativa e
la natura di diritto sperimentale
Aggiungerei che l’impronta facilitativa delle norme in
materia di mediazione è resa ancor più evidente dalla natura di diritto
sperimentale che si pone in termini di efficienza laddove sia capace di
produrre la deflazione del contenzioso giudiziale. Si vuole facilitare la
stipulazione di accordi conciliativi delle liti per ridurre il contenzioso
presso gli uffici giudiziari.
Tale premessa rappresenta a mio modo di vedere la guida più
lucida nell’interpretazione delle norme: illumina la strada e ne evidenzia al
tempo stesso i limiti e le aporie.
Solo qualche indicazione in funzione esemplare, ma la
riflessione potrebbe condursi pedissequamente su molte delle disposizioni della
nuova legge:
a) Primo fra tutti, il profilo della domanda di mediazione
che per il nuovo art. 4 del Dlgs 28/2010 riformato, deve essere presentata
dinanzi all’organismo nel luogo del giudice territorialmente competente per la
controversia.
Attenzione: la norma non è di natura processuale, non
disciplina il processo, seppure impieghi il concetto di competenza del giudice
per disegnare i confini della scelta dell’organismo di mediazione che rendano
maggiormente agevole l’incontro delle parti e, dunque, la conclusione
dell’accordo conciliativo (ecco la facilitazione).
Che errore sarebbe quello di pensare che la norma citata
disponga una regola di competenza territoriale per la mediazione! La mediazione
è libera, ma dovendosi guidare le parti verso la conclusione delle liti tramite
accordo conciliativo, si indica la relativa modalità facilitativa: “la domanda
di mediazione è presentata mediante deposito di un’istanza presso un organismo
nel luogo del giudice territorialmente competente”.
A tale lettura, che ritengo essere l’unica possibile secondo
una visione complessiva e coerente della nuova legge, consegue che: nulla
impedisce che le parti si incontrino presso altro organismo, ché in tal caso
l’accordo raggiunto sarebbe indiscutibilmente valido (se concluso nel rispetto
delle norme sulla validità del contratto). Nulla impedisce, altresì, che in
mancanza di accordo conciliativo e avviato il processo le parti confermino in
tale sede la volontà di procedere seppure si siano incontrate presso un
organismo al di fuori del confini di competenza territoriale del giudice. Solo
in mancanza di accordo sulla scelta dell’organismo, per espressa dichiarazione
del convenuto in giudizio o nel caso in cui questi sia contumace, il giudice
dovrà invitare le parti ad incontrarsi presso un diverso organismo. Il regime
facilitativo che sottende le scelte legislative in questo senso è limpido: non
trattandosi di competenza in senso tecnico processuale, e neppure di condizione
di procedibilità, ché non lo dice espressamente la legge, il giudice dovrà
valutare se continuare il processo o invitare l’attore a convocare nuovamente
l’altra parte presso un organismo diverso.
Come è evidente, la volontà delle parti in lite, in uno con
la facilitazione degli accordi conciliativi, è il primo canone di valutazione
da parte del giudice, non trovando giustificazione alcuna le interpretazioni
fondate sul regime della competenza territoriale di tipo processuale.
b) Un altro aspetto che merita attenzione nell’ottica
delineata è il comma 2-bis del nuovo art. 5 del Dlgs 28/2010. Una lettura di
tipo formale della disposizione che prevede la condizione di procedibilità non
può che condurre ad una soluzione che ai più è apparsa inaccettabile: la norma
dispone che la condizione di procedibilità si verifica se le parti si sono
incontrate ma non sono pervenute all’accordo. Pare che la legge abbia voluto
dirci che “non si procede in giudizio se non c’è stato l’incontro”. Un
principio di effettività, dunque.
La proposta di una lettura della norma fedele al testo, che
più volte ho rivolto al mio interlocutore, ha sollevato giustificate forti
reazioni di contrarietà: un limite grave all’accesso alla giustizia nelle mani
del chiamato in mediazione e convenuto in giudizio che impedirebbe, con il suo
comportamento di assenza all’incontro, la procedibilità dell’azione giudiziaria
nei suoi confronti. Ciò è indubbio, ma ricordo che si tratta di un diritto
sperimentale che vuole accompagnare verso la cultura della mediazione delle
liti per deflazionare il contenzioso e rendere efficiente il sistema giustizia.
Non stupiamoci dunque più di tanto se il legislatore abbia scelto la strada del
principio di effettività: a nulla serve la mera istanza cui non segua almeno
l’incontro delle parti. Ha scritto che l’incontro avvera la condizione di
procedibilità, ma non può tirare tale scelta fino al fondo delle sue
conseguenze.
Proprio a questo proposito si percepisce tutta la tensione
delle scelte normative fra l’obiettivo di efficienza per la diffusione di
pratiche deflattive, da una parte, e il principio del libero accesso alla
giustizia, tensione che ricorre costantemente nella disciplina della mediazione
che doveva essere elogio dell’autonomia e invece è ricerca di correttivi alla
possibile fuga dalla mediazione.
Non rimane che leggere la norma dell’art. 5, comma 2-bis,
nella consapevolezza del suo stesso limite: è diritto sperimentale che indica
la strada che conduce al migliore dei modi possibili per evolvere il sistema
giustizia (rectius, tutta la società): che si incontrino le parti in lite nella
mediazione, che ne comprendano il senso grazie all’orientamento di mediatori
qualificati, che tentino di valutare tutte le possibili opzioni conciliative,
grazie alla assistenza qualificata degli avvocati.
Così, si comprende chiaramente come ciò non possa
configurare una condizione formale
all’accesso alla giustizia (in caso di mancato incontro non si procede
nella causa), ma altrettanto appare chiaro che la responsabilità che assume chi
non ha partecipato all’incontro è più grave nell’ambito del processo
successivamente avviato, atteso che la legge ha inteso assegnare al principio
di effettività dell’incontro un ruolo decisivo per la diffusione della cultura
della mediazione e per il successo del programma di deflazione del contenzioso.
Una responsabilità già regolata, fra l’altro, dalla disciplina processuale.
c) A proposito della partecipazione necessaria degli
avvocati alla pratica di mediazione: per tutto quanto già osservato, ovvero per
la portata facilitativa della conclusione dell’accordo insita anche in tale
norma, l’eventuale mancanza degli avvocati non solo non inficia la validità
dell’accordo finale di conciliazione, ma neppure impedisce in ogni caso la
procedibilità della domanda giudiziale qualora l’incontro di mediazione, non
conclusosi con l’accordo, si sia tenuto
con la presenza della sola parte. Non è scritto, fra l’altro, che in mancanza
degli avvocati in mediazione la condizione di procedibilità non si considera
avverata (Cfr. art. 5, 2-bis del Dlgs 28/2010 riformato: 2-bis: “quando
l'esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità
della domanda giudiziale la condizione si considera avverata se il primo incontro
dinanzi al mediatore si conclude senza l'accordo”). È evidente, invece, che non
sarà applicabile in tal caso la norma che assegna il valore di titolo esecutivo
all’accordo sottoscritto dalle parti e dai loro avvocati, a causa della
mancanza appunto degli avvocati.
L’onere a carico delle parti di farsi assistere dagli
avvocati è relativo alla procedura di mediazione, non è giuridicamente
rilevante al fine dell’avveramento della condizione di procedibilità
dell’eventuale processo. Non si avviano mediazioni senza avvocati: è il senso
della norma. Scorretto è valutare la portata della norma in sede processuale.
Come, d’altra parte, è auspicabile che si stemperi - con il tempo - il legame
fra mediazione e processo. Un legame voluto, ripeto, al solo scopo di impedire
le vie di fuga da una pratica virtuosa.
È un diritto sperimentale, che da una parte assegna un
carico di responsabilità, ma dall’altra non può impedire il libero accesso alla
giustizia. Solo un richiamo di attenzione, peraltro, al principio di realtà
secondo il quale rarissimi sono stati i casi di procedure attivate in assenza
degli avvocati.
È solo una sperimentazione: non perdiamo il nostro tempo a
cercare, discutere, riflettere sulla interpretazione e l’esegesi delle norme,
che comunque, come ho già sottolineato, non produrranno mai nel complesso un
suono armonico. L’avvocato è nato per vincere. Valuti, allora, se è all’altezza
del compito che gli è stato chiesto di assumere: contribuire nel ruolo di
protagonista alla evoluzione della vita dell’uomo, al progresso della nostra
società, attraverso un’innovazione profonda della professione legale, che nulla
perde, ma vince anzi un più alto valore sociale.
Il diritto generativo
Sono finalmente arrivata, dopo anni di ricerca e
sperimentazione, a un pensiero rassicurante che permette di dialogare,
confrontarsi, comunicare e insegnare la mediazione senza il timore di suscitare
rabbia e disappunto, di incontrare barriere e lance in resta. A ciò sono
arrivata dopo aver compreso che il riesame è la vera chiave che accende il
motore delle macchine virtuose nella società. L’intervento pubblico sulla
mediazione civile e commerciale del 2010 non ha contribuito quanto avrebbe
potuto a generare una cultura della gestione delle liti, perché non si è
dialogato, non si è ascoltato, non si è creata quella relazione virtuosa che è
alla base, che è il senso stesso, il significato vero e profondo, della
gestione in mediazione delle controversie. Si è scelto, invece, un intervento
forte, a gamba tesa: l’obbligatorietà del tentativo di mediazione con
correttivi strategici della relativa elusione, con il ricatto della
improcedibilità della domanda giudiziale. Un intervento che, fra violazioni più
o meno consapevoli, interpretazioni più o meno convincenti, è stato duramente
sconfitto, seppure per vizio di delega, con sentenza della Corte
Costituzionale.
Solo nella profonda onestà intellettuale di chi è
consapevole che il diritto che impone il tentativo di mediazione non può
superare il limite della garanzia dell’accesso libero alla giurisdizione, è
dato comprendere, senza ipocrisie, che il diritto processuale non può
disciplinare la mediazione: è un’antinomia troppo forte da accettare e neppure
la ricerca spasmodica di risposte interpretative minimamente coerenti riesce a
placare l’insoddisfazione abissale del giurista. Il diritto della mediazione
può solo essere diritto dell’accordo, dell’autonomia privata, non può prevedere
ciò che la mediazione deve essere e come deve essere al fine di poter accordare
la procedibilità in giudizio in caso di mancato accordo!
Al punto limite, e per gli scopi indicati, tale diritto può
obbligare a tentare la mediazione prima di adire la giurisdizione, punto. Può
facilitare la strada, ma senza per ciò erodere il processo.
Solo un’incurabile ottimista, una fanatica del diritto
generativo di valori, quale sono, poteva leggere il dettato normativo
valorizzandone la portata altamente educativa. E, infatti, ho accolto tale
scelta come leva potente di progresso. Quante le volte in cui mi sono
soffermata sul messaggio potente che l’obbligatorietà trasmetteva: il diritto
indica, per la risoluzione delle liti, una strada che non si può evitare di
percorrere, quella che impone agli individui di fare esercizio dell’autonomia.
Come poter contraddire questa nobile opportunità, ovvero quella di co-decidere,
insieme all’altro, la sorte del conflitto, impiegando la propria e l’altrui
volontà in funzione generativa di soluzioni? Come non accogliere positivamente
l’assunzione di responsabilità derivante dalla gestione autodeterminata del
problema, prima del rimedio della delega al giudice?
Eppure, a questa cultura non si era preparati adeguatamente,
non si era seminata abbastanza l’auto-responsabilità, l’auto-determinazione,
l’importanza dell’autonomia, significato di adultità dell’uomo capace di
gestire le relazioni conflittuali in modo consapevole e pacifico. Un diritto al
servizio delle persone e delle imprese è capace di mettere le persone e le
imprese in condizione di saper scegliere e non solo di obbligarle a scegliere.
Generalizzare il senso della consapevole e autonoma
soluzione della crisi relazionale è stato un passo breve e facile, che ha
trascurato tuttavia che proprio questo è il terreno che ha ancora bisogno di
una semina adeguata affinché crescano i valori che rendono l’uomo adulto,
capace di gestire pacificamente i conflitti cui è destinato per sua stessa
natura.
Questo doveva - e può ancora essere - l’impegno del
legislatore con i cittadini del nostro Paese: portare l’attenzione
sull’importanza e la nobiltà della cura delle relazioni sociali.
Il problema giustizia non è solo della giustizia, ma della
società intera e prima di tutto dell’uomo, del cittadino, dello studente, della
famiglia, dell’impresa e di ogni organizzazione dalla più semplice alla più
complessa: una grande rete fatta di relazioni sociali diverse ma tutte bisognose
di una stessa componente, che è l’uomo adulto, eticamente adulto, ovvero capace
di gestire la propria libertà in modo consapevole e nel rispetto di quella
altrui. Così come nelle singole relazioni sociali ciò che produce valore è il
confronto fra le differenze da cui nascono le idee per la soluzione dei
problemi, anche al piano più alto del confronto fra le istituzioni e i compiti
delle stesse, si può ancora fare molto: il nostro Paese ha bisogno di avere un
po’ di luce e accenderla è possibile diffondendo una cultura del confronto e
dell’ascolto, appunto, che generi idee.
Queste le ragioni che giustificano ancora uno sforzo, il più
importante, forse, da parte del governo. Quello che conduce al piano alto della
qualità della formazione e dei servizi strutturati di mediazione. È qui,
infine, che il diritto può divenire generativo di progresso sociale. Ciò che
occorre è un riconoscimento autonomo scientifico della Mediazione, al pari e
distintamente dal Processo, affinché dietro lo studio dei procedimenti ADR non
vi sia solo pratica ma autonomia scientifica e didattica, con indirizzi
metodologici definiti e sistemi concettuali adeguati e autonomi. Ciò che è
urgente al fine del raggiungimento dell’obiettivo che tanto ha mosso gli
studiosi e la politica, è creare le condizioni affinché si diffonda,
finalmente, il sapere Essere Mediatore, il sapere Accompagnare l’individuo in
Mediazione, il sapere Essere Individuo Adulto, Consapevole e Responsabile.
(Professore ordinario di Diritto commerciale nell’Università
di Firenze
Responsabile scientifico del Laboratorio di ricerca
“Unaltromodo” dell’Università di Firenze)
Nessun commento:
Posta un commento