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sabato 10 novembre 2012

Quali rapporti tra mediazione civile-commerciale e mediazione penale?


Da Blog conciliazione (link)
di Simona Silvani*

Come mediatore penale mi sono formata nell’ambito del c.d. modello umanistico-dialogico, ideato e proposto da Jacqueline Morineau. È un modello di mediazione, peraltro passibile di applicazione nei diversi ambiti della mediazione (dunque non solo in campo penale), che si concentra sul percorso di riconoscimento personale e profondo tra le due parti in conflitto, attivato attraverso la parola e l’ascolto.

Nella mediazione penale (più correttamente, mediazione reo/vittima) c.d. umanistica, il dialogo è inteso come lo strumento per innescare un processo trasformativo che permette alle parti che siedono in mediazione – un autore di reato e una vittima – di evolvere dalla fissità dei ruoli in cui il conflitto generato o esacerbato dalla commissione di un reato le ha relegate, di evolvere dalle rispettive visioni e posizioni cristallizzate per aprirsi verso l’altro.

Nella mediazione reo/vittima, proprio perché si parte da un fatto di reato o, più correttamente, da un’ipotesi di reato, si entra in contatto con sentimenti profondi e violenti (paura, odio, umiliazione, senso di ingiustizia, rabbia, desiderio di vendetta) e si offre uno spazio protetto in cui questi sentimenti possono trovare accoglienza, senza giudizio.

Nell’esperienza della mediazione reo/vittima, ciò che irrompe sulla scena sono senza dubbio le emozioni, forti e distruttive, e una delle più importanti ‘abilità’ che il mediatore penale è chiamato a sviluppare è proprio la capacità di stare in mezzo, con la propria verticalità, a queste emozioni, per aiutare le parti a dare loro un nome e avviare un dialogo sui valori e sui bisogni.

Questo aspetto legato all’importanza delle emozioni, anche se non solo questo aspetto, si riflette nel metodo elaborato da Jacqueline Morineau. In base ad esso, la mediazione si articola in diversi momenti: dopo il primo contatto con le parti, volto ad acquisire il loro consenso alla mediazione, segue la fase dei c.d. colloqui preliminari, in cui ciascuna della parti incontra separatamente i mediatori; a tali colloqui, sempre che le parti abbiano confermato il loro consenso alla mediazione, seguirà l’incontro vero e proprio, che si terrà alla presenza di entrambe le parti e dei mediatori.

La previsione di colloqui individuali preliminari (che, rispetto a ciò che accade nella mediazione civile e commerciale – dove la sessione congiunta precede, di norma, i c.d. caucuses – appare come un’inversione metodologica), consente una preparazione importantissima al successivo momento dell’incontro mediativo. Tali colloqui, infatti, rappresentano uno spazio e un tempo esclusivi, in cui la parte ha la possibilità di raccontare la propria storia, di fare emergere, dando loro un primo sfogo, sentimenti ed emozioni spesso rimasti a lungo inespressi, e di cominciare a lasciare affiorare i bisogni di riparazione e restituzione; inoltre, durante tali colloqui, i mediatori lavorano per rendere la parte il più possibile consapevole circa il significato del percorso che ha intrapreso, preparandola a ciò che l’aspetterà durante l’incontro di mediazione vero e proprio.

È questo, a mio avviso, un primo dato metodologico della mediazione reo/vittima su cui sarebbe utile riflettere anche nello svolgimento delle mediazioni civili e commerciali. Come mediatore civile, considero la preparazione delle parti alla mediazione un momento fondamentale; per questo motivo, cerco di mettere la maggiore cura possibile nella c.d. fase introduttiva, nella convinzione che in essa si giochi molto rispetto alla disponibilità delle parti ad un reale e costruttivo confronto (fermo restando, ovviamente, il lavoro preparatorio, indispensabile e insostituibile, svolto dai funzionari camerali). Ritengo che l’idea della responsabilità delle parti rispetto al conflitto nonché l’idea della mediazione come occasione che è stata loro data – che loro stesse hanno creato – per lavorare, mettendosi in gioco e confrontandosi, al fine di trovare una soddisfazione ai propri bisogni e interessi (partendo da e nonostante il conflitto), debbano in alcuni casi avere un tempo e uno spazio anche riservati, per potere per essere espresse ed effettivamente introiettate da ciascuna parte, in vista dell’incontro con l’altra.

Si potrebbe dunque ragionare, prendendo spunto dalla mediazione reo/vittima, sull’opportunità che questo tempo e questo spazio riservati, anche utili per dare un primo sfogo alle emozioni, riducendo così il rischio che il loro esplodere improvviso possa compromettere l’incontro o rendere molto più difficoltoso e accidentato il percorso verso il raggiungimento di un accordo, vengano anticipati rispetto al momento di confronto diretto con l’altro. (Talvolta, in alcune mediazioni particolarmente difficoltose o fallite, ho avuto la netta impressione che se le parti avessero avuto modo di confrontarsi prima e separatamente con il mediatore, avrebbero affrontato diversamente l’incontro, ossia il momento relazionale più importante.)

Oltre al dato metodologico appena evidenziato, vi è un secondo aspetto tipico della mediazione reo/vittima che può offrire uno spunto di riflessione utile anche alla mediazione civile e commerciale, e che è rappresentato dalla previsione di una équipe di mediatori durante tutto il percorso mediativo: due sono i mediatori che ascoltano le parti durante i colloqui preliminari e tre sono i mediatori che partecipano all’incontro.

Non si tratta di una scelta casuale. Il lavoro sulle emozioni che irrompono in mediazione penale è faticoso. Per citare Morineau, nei conflitti i mediatori possono trovare schegge delle loro esperienze personali, e, per quanto non direttamente implicati, non possono rimanere estranei di fronte a vissuti di sofferenza. Queste implicazioni e irruzioni del vissuto del mediatore nel conflitto sono imprevedibili e rischiano di comprometterne l’equi-vicinanza rispetto alle parti. Da qui l’esigenza di lavorare in team: il mediatore penale deve avere l’‘umiltà’ di riconoscere il proprio coinvolgimento e, una volta riconosciuto ciò, deve avere la possibilità di lasciare spazio agli altri co-mediatori.

Anche partendo da questa scelta metodologica potrebbe essere avviata una riflessione sul metodo della mediazione civile e commerciale. Si potrebbe riflettere, in particolare, sull’opportunità di prevedere il lavoro in team – in co-mediazione – in tutti quei casi e in tutte quelle di controversie, in cui, per la stessa materia oggetto del conflitto (si pensi alla responsabilità medica o alla diffamazione a mezzo stampa) o per i rapporti che intercorrono tra le parti coinvolte (si pensi alle controversie che vedono contrapposti i membri di una stessa famiglia o colleghi di lavoro) è più probabile che irrompano emozioni forti e vissuti di sofferenza.

*Mediatore civile-commerciale e Mediatore penale.

sabato 10 marzo 2012

Recensione de "La promessa della mediazione"


Trovo che il volume di Baruch Bush e Folger sia decisamente interessante e metta in luce un approccio alla gestione delle controversie, il modello trasformativo, decisamente diverso da quello “tradizionale. Soprattutto se lo mettiamo in relazione al panorama editoriale di questo ultimo periodo (vale a dire dal d. lgs. 28/2010 in poi), che per quanto molto “ricco” (forse anche troppo) e con pubblicazioni sicuramente di rilievo, in realtà riporta approcci e modelli applicativi alla mediazione che sono tutti simili, poiché improntati all’approccio basato sulla soddisfazione degli interessi e dei bisogni.
Ecco quindi che l’approccio di cui ci parla “La promessa della mediazione” “spicca” proprio perché focalizza l’attenzione sulla trasformazione della relazione tra le parti in conflitto, considerandola forse ancora più importante rispetto alla stessa soluzione della controversia.
Ma l’importanza del volume non risiede solo in questo (per la verità, sarebbe già abbastanza) perché in realtà offre tanti diversi spunti di riflessione che meritano un approfondimento per gli studiosi e gli appassionati di mediazione. Solo allo scopo di fare una breve e sintetica “guida alla lettura”, ho cercato di estrapolarne qualcuno.

“Modelli” di mediazione in Italia
Uno dei primi aspetti importanti riguarda la considerazione dei curatori dell’edizione italiana (Scotto e Castoldi), i quali sottolineano (pag. 9) che nel nostro paese la mediazione appare sotto diverse forme interpretative, mancando « un unico modello […] dominante in tutti gli ambiti». Piuttosto, «in ciascun settore troviamo uno o più indirizzi o modalità di intervento applicate, come il problem-solving e l’approccio di Harvard (Nicosia 2008) (1), la mediazione umanistica sviluppata da Jacqueline Morineau (Morineau, 2004) (2), gli approcci sistemico e simbolico-relazionale nella mediazione familiare (Scabini Rossi 2008) (3), la facilitazione di processi decisionali partecipativi (4)».

Le quattro storie della mediazione
Altro aspetto importante del volume (a mio avviso uno dei migliori contributi dei due autori al “pensiero” sulla risoluzione alternativa delle controversie) riguarda le quattro forme di “narrazione” sulla mediazione, distinte e divergenti tra loro, che spiegano, secondo diverse prospettive e chiavi interpretative, cosa essa rappresenti e come si sia evoluta nel tempo.
La prima “storia” è quella della “soddisfazione” che vede nella mediazione uno strumento efficace e creativo per soddisfare i bisogni personali e per ridurre il disagio delle parti in conflitto.
La seconda, della “giustizia sociale”, considera la mediazione come uno strumento efficace per organizzare gli individui intorno ad interessi comuni, aiutando la costruzione e il consolidamento dei legami sociali e aumentando così il potere negoziale dei meno abbienti.
La terza storia è quella della “trasformazione” ed è questa che, secondo Baruch Bush e Folger, realizza la “promessa” della mediazione perché permette di trasformare la qualità dell’interazione conflittuale, dando nuovo vigore all’energia personale e alla capacità di comprensione. 
Infine la quarta storia è quella della “oppressione” (potremmo definirla “il lato oscuro della mediazione”) che vede in essa uno strumento nelle mani del potere statuale per accrescere il proprio controllo e per esercitare pressioni e manipolazioni, creando anche condizioni di iniquità per gli svantaggiati.

Empowerment e riconoscimento
Per gli autori queste sono le due dimensioni-chiave della trasformazione della controversia (che è il punto focale delle “storie” della mediazione, in particolare della terza). Empowerment (auto-capacitazione, rafforzamento) «significa il ristabilimento negli individui della percezione del proprio valore, della propria forza, della propria capacità di prendere decisioni e di gestire i problemi della vita». Riconoscimento invece «è l’evocazione di una conferma, di comprensione o di empatia nei confronti dell’altro e del suo punto di vista» (pag. 32).

Dalla risoluzione del conflitto alla trasformazione della relazione
Nel modello trasformativo uno degli aspetti certamente più interessanti è che al centro dell’attenzione dell’attività del mediatore non è tanto la “soluzione” della controversia (l’esito positivo o conciliazione) quanto la trasformazione dell’interazione tra le parti, attraverso il ristabilimento dei canali di comunicazione e di dialogo e la piena “esplorazione” nella gestione delle emozioni.
In questo sta anche la differenza con la mediazione “tradizionale”, definita dai due autori transactional, che si concretizza, a livello di procedimento, in due differenze fondamentali rispetto all’attività del mediatore: il diverso “taglio” della conversazione d’apertura e l’approccio verso gli incontri riservati.  A proposito della prima, nell’approccio trasformativo il mediatore considera l’apertura della seduta come una conversazione “negoziale” con le parti (su vari argomenti: i loro obiettivi riguardo la procedura, eventuali linee-guida, le loro aspettative sulla riservatezza, ecc.), e non come una dichiarazione formale da fare alle parti. Per quanto riguarda invece i caucus, questi si fanno nella trasformativa solo qualora le parti ne avvertano la reale necessità.

Conclusioni
Dall’idea che mi sono fatto leggendo il volume esistono a mio avviso diversi elementi in comune tra il modello trasformativo e l’approccio che si basa sulla soddisfazione degli interessi e bisogni. Certo, non si può trascurare che gli autori non considerano i due modelli integrabili, giustificando questo con il fatto che non sarebbe possibile integrare la visione del futuro (tipica nella mediazione tradizionale) con l'invito alle parti a guardare al passato (caratteristica del modello trasformativo).
Tuttavia, soprattutto se penso al ruolo del mediatore come facilitatore della comunicazione e della negoziazione fra le parti, sinceramente trovo che tanti elementi e tecniche della mediazione trasformativa potrebbero tornare davvero utili al mediatore che adotta uno stile facilitativo. Chissà allora che il modello trasformativo non possa diventare, in generale, un obiettivo cui tendere, a mio avviso non tanto per applicarlo pienamente, ma soprattutto per “arricchire” la cassetta degli attrezzi del mediatore attraverso una più ampia gamma di strumenti, tecniche e interventi.

(1) Nicosia P., Mediazione e conciliazione societaria, Ed. Carlo Amore, Roma, 2008.
(2) Morineau J., Lo spirito della mediazione, Milano, Franco Angeli, 2004.
(3) Scabini E. – Rossi G. (a cura di), Rigenerare i legami: la mediazione nelle relazioni familiari e comunitarie, V&P Università, Milano, 2004.
(4) Sclavi M., Avventure urbane. Progettare la città con gli abitanti, Eleuthera, Milano, 2002.

martedì 13 dicembre 2011

Mediazione come opportunità di trasformazione personale

In questi giorni sto leggendo un volume molto interessante di Giovanni Cosi e, tra le tante pagine meritevoli di attenzione, trovo questa che mi sembra particolarmente “intonata” come “trait d’union” tra la formazione comportamentale e la formazione sulla mediazione.

“La vera promessa della mediazione consisterebbe nella sua capacità di trasformare la personalità dei soggetti in conflitto e la società in generale. Grazie al suo informalismo e consensualismo, la mediazione infatti permette alle parti di definire in autonomia i loro problemi e i loro scopi, facendo risaltare l’importanza di essi nelle loro rispettive esistenze. Inoltre la mediazione aiuta le parti a sviluppare l’autodeterminazione nel decidere se e come porre fine a una disputa, e le favorisce nel mobilitare le loro risorse personali a questo scopo. Il movimento per la mediazione ha almeno in parte utilizzato queste caratteristiche della procedura per rafforzare nelle parti le loro stesse capacità di governare circostanze avverse di ogni tipo, attuali ma anche future. Chi partecipa a una mediazione guadagna in genere fiducia, rispetto e considerazione in se stesso. In questo consiste l’effetto di ‘rafforzamento’ (empowerment) della mediazione.

Inoltre il carattere privato e non-giudiziario della mediazione offre alle parti un’opportunità non coattiva di contatto e comunicazione. In questo contesto, alla presenza di mediatori addestrati a favorire la comunicazione interpersonale, le parti spesso scoprono che possono esprimere comprensione e riconoscimento reciproco nonostante il conflitto che le oppone. In questa concezione la procedura di mediazione diventa lo strumento per aiutare gli individui a rafforzare le proprie capacità di relazionarsi intorno a problemi. Anche se le parti esordiscono come fieri avversari, la mediazione può sortire l’effetto di produrre tra loro riconoscimento e interesse reciproco in quanto essere umani. In questo consiste l’effetto di ‘riconoscimento’ (recognition) della mediazione.

G. Cosi-G. Romualdi, La mediazione dei conflitti, Giappichelli, Torino, 2010, pp. 105-106.